Fair is foul and foul is fair
(MacBeth, William Shakespeare)
Cinquantatré lunghissimi minuti. In campo, a correre sgraziato e completamente sconnesso. In panchina, a far scoprire a quella vecchia volpe di Graeme Souness che non importa quanto tu sia scafato, il pacco possono rifilartelo sempre. Oggi fanno giusto vent’anni che quel sogno conquistato a botta di mazzo (ché dire solo fortuna non basta) e grazie a una mezza truffa telefonica (mai ammessa, manco a distanza di vent’anni) sfiorì in 53 disgraziatissimi minuti. Che bastarono a tutta Southampton per scoprire che il supposto erede e cugino di George Weah era solo un bidone senza speranza e, perciò, decretò che da quel momento in poi i bugiardi si sarebbero chiamati tutti Ali Dia.
Senegalese, come tutti i calciatori dell’Africa occidentale di tutte le generazioni, raggiunge il calcio europeo approdando nelle serie minori del campionato francese. È attaccante, è giovane, ci crede. Da una parte bisogna pur cominciare l’ascesa all’Olimpo del pallone, fa nulla che non è arrivato subito l’OM o il Psg. Siamo alla fine degli anni ’80. Basta essere ottimisti e tutto arriverà da se.
Solo che dopo qualche anno finisce a tirare pallonate fiacche sui campi sperduti, ghiacciati e vista lago della Finlandia del sud. A Vantaa, in una squadra che si chiama Pallokhero 35.
Il primo colpo di fortuna avviene quando, non si sa bene grazie a chi, né come e né perché, fugge dalle nevi finniche. Fa scalo in Germania, al Lubecca dove ha il tempo di farsi notare per essere ben poco portato al giuoco del pallone. Arriva la seconda carezza della sorte. Trova una sottospecie di ingaggio nel dilettantismo inglese, nei biancoverdi del Blyth Spartans all’estremo nord dell’Inghilterra. Quasi a ridosso del Vallo di Adriano. Ma è un altro il muro che l’ambiziosissimo Ali Dia vuole sfondare: quello della Premier League, del calcio che conta, delle figurine, delle curve che ti osannano e cantano a squarciagola il tuo nome. Ha deciso che giocherà in massima serie e lo farà, costi quel che costi.
Qui la storia smette di essere storia e inizia il mito. Secondo la leggenda, trova un complice in uno studente universitario che – stufo di sentirselo nelle orecchie – piglia il telefono e comincia a chiamare mezza Premier. Il basista telefonico si finge niente poco di meno che George Weah e vuole contrabbandare l’amico Alì per suo cugino senegalese, ex stella del Psg e della nazionale sené disponibile sul mercato da subito, a prezzo di favore.
La prima telefonata arriva a Boleyn Ground. Il West Ham, nella personcina di Harry Redknapp, manda il falso Weah e il fantomatico cugino a farsi un bagno.
Ma la fortuna, non s’è mai capito perché, aveva deciso che lo sfizio di giocare in Premier Alì doveva toglierselo. La pappardella della parentela transafricana se la beve Graeme Souness, mica uno di primo pelo. Che lo porta al Southampton dove c’è Matt Le Tissier. È il 1996, il ragazzino partita dal Senegal ora ha 31 anni, il sogno è diventato realtà.
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Ali è felice, ora ha finalmente l’occasione per dimostrare al suo talento di non essere da meno della sfacciata fortuna che lo circonda. Si allena, ma i compagni sono scettici. Le Tissier lo paragona a un Bambi spaurito che pattina sul ghiaccio. C’è da tremare, a giudizi così. Ma Souness gli vuole dare fiducia. Almeno una partita, dai. Giusto per non far pigliare collera a George Weah. Che, in tutto questo, non c’entra niente ma non lo sa. L’occasione perfetta sarebbe una partita contro le riserve dell’Arsenal ma la buona sorte s’è incaponita: si scatena un nubifragio e salta l’incontro. Bene, per Dia allora il battesimo sarà di fuoco. Souness se lo porta in panchina contro il Leeds. È il 23 novembre 1996.
L’ultimo regalo che gli fa la Dea Bendata è l’infortunio che capita proprio a Le Tissier, al 32esimo del primo tempo. “Ali, tocca a te”. Dia entra in campo. Ci resterà per cinquantatré, lunghissimi, disastrosi minuti. Di lui si ricorderà un piattone destro scoordinatissimo e tirato sul primo palo dal limite dell’area piccola. Un’interminabile serie di contrasti perduti, un birillo con tante buone intenzioni. Ma di queste, come noto, è lastricata la via che porta all’inferno e dato che i Saints le stanno già buscando (finirà 0-2 per il Leeds), Souness capisce che è arrivato il momento di rinsavire. All’85esimo lo toglie, dalla disperazione mette un difensore e gli straccia il contratto in faccia.
Tornò a giochicchiare tra i dilettanti della domenica, si rimise a studiare, si laureò e si trovò un lavoro onesto.
A distanza di giusto vent’anni, Dia non ammette la “truffa” né di essere mai stato un bugiardo. Parla di occasioni mancate e di una grande amicizia con George Weah, che lui (dice) conosceva veramente.Non ammetterà mai di essere stato lui il primo a essere stato beffato dalla sua stessa smodata e malriposta ambizione.