Sono le parole che formano il pensiero; e un uso scorretto delle parole non può che portare a pensieri scorretti, dunque a erronee o parziali ricostruzioni della realtà e analisi delle sue dinamiche. Un termine usato oggi sempre più spesso e sempre più vagamente è il termine “populismo”: riusciremo a metterci d’accordo sul senso definitivo, specialmente sul piano politico, della parola in questione, per poter descrivere al meglio il fenomeno che indica?
Nella maggior parte dei casi “populismo” e le sue derivazioni sono oggi utilizzate nel dibattito pubblico in senso dispregiativo, per indicare un politico o un partito che parla demagogicamente all’irrazionalità, alla paura, ai sentimenti ritenuti peggiori. Si capisce che un criterio del genere è puramente soggettivo. Qualsiasi politico si può rivolgere a componenti extrarazionali dell’elettorato attuale o potenziale. E arbitraria è anche la scelta di quali sentimenti siano extrarazionali, positivi, negativi.
Altrettanto da respingersi è anche la definizione di populismo come superficialità e inseguimento del consenso anche al prezzo di falsità o inesattezze; su come i nuovi media siano aperti, quasi predisposti, alla diffusione di notizie false, si può dire a parte. In questa definizione comunque risulta arbitrario stabilire cosa sia superficiale e se più in generale possano esistere proposte politiche formulate con lo specifico intendimento di perdere consenso.
Nessuna di queste definizioni insomma aiuta la comprensione del fenomeno populista, riducendosi a un pregiudizio qualitativo dello stesso. Nessun mistero, dunque, che non si siano approntate “contromisure” da parte di chi lo critica. Per quanto una definizione possa contenere un giudizio, non può ridursi a questo.
Una definizione politica possibile è allora mutuata in buona parte da Rosanvallon: populisti sono oggi quei movimenti, sociali e politici, che si incaricano di coordinare, dirigere e incoraggiare la sfiducia interna a un sistema sociale e politico verso il sistema stesso, senza però proporre un sistema radicalmente differente.
Si tratta cioè di comandare il fronte “anti” qualcosa, senza però al contempo formulare una proposta realmente alternativa. Questo tipo di definizione, sicuramente incompleta, può comunque aiutarci a chiarire alcuni punti d’analisi, in particolare, i movimenti populisti vanno definiti e misurati sul piano delle proposte e non sul piano superficiale della gestione della comunicazione, i movimenti populisti che hanno una proposta formulata andrebbero esaminati con oggettività quanto alla governabilità programmatica del contesto sociopolitico che si propongono di governare e infine i movimenti anti-sistema che non portano con sé la proposta di un nuovo extra-sistema da sostituire al sistema vigente, si riducono di fatto a camuffati movimenti pro-sistema che cercano solo, con formule e modalità inedite, di conseguire ciò che ogni sistema democratico si propone: il cambio della classe dirigente.
Sotto queste premesse dunque occorre chiarire e concludere che i movimenti populisti sono dal punto di vista comunicativo nativi digitali, e quindi sfruttano a proprio favore il nuovo contesto comunicativo, che è però disponibile ugualmente per tutti i soggetti politici;
i movimenti populisti sono spesso figli di una ridotta efficienza dei sistemi democratici nel ricambio della classe dirigente (quindi nella rappresentanza) e nella gestione della necessaria alternanza delle maggioranze di governo e i movimenti populisti emersi fino ad oggi pur definendosi anti-sistema nella maggior parte dei casi si limitano a prevedere una differente gestione del sistema già comunque presente. Non sono quindi, sul piano politico-sistemico, movimenti rivoluzionari, ma implicitamente conservatori.
@barbadilloit