Quanti sogni. Certo che poi ho pianto e singhiozzato quando ho saputo cosa era accaduto all’Ungheria.
Vladimir Dimitrijevic
C’è un gesto che lo ha consegnato alla storia in mezza frazione di secondo: prendere palla al limite dell’area piccola, addomesticare il pallone con il sinistro, accarezzarselo all’indietro con lo stesso piede mandando il tuo marcatore a gambe all’aria, aggiustarsi, mirare e tirare una cannetta sul primo palo, bruciare il portiere avversario. Ci vuole più tempo a scriverlo e descriverlo che a farlo, è autentico teatro come diceva ragionando di pallone Carmelo Bene.
È un altro calcio, quello. La guerra è finita ormai da qualche anno, il mondo è diviso in due e tu devi scavalcare Manica e Cortina di Ferro per dimostrare a quei boriosi degli inglesi che l’Ungheria è davvero l’Aranycsapat, che poi è un parolone impronunciabile a ogni indoeuropeo creato ma tu sei figlio di Attila e te ne strafreghi. L’Orda d’Oro del calcio, la squadra più bella e più forte del mondo. E tu ne sei il capo carismatico, indiscusso. Sei Ferenc Puskas, il Colonnello che umiliò l’orgoglio dei Maestri bestemmiando finissime tessiture di calcio nel Tempio di Wembley.
Dieci anni fa, Puskas se ne andò. Ormai immemore di sè, di ciò che fu, del perché tutto gli volessero così bene in Ungheria al punto da dedicarsi – egli ancora vivente – l’intitolazione di uno stadio. Se l’Aranycsapat è stata la poesia danubiana, l’Alzheimer gliene cancellò l’eco del ricordo. Forse fu una benedizione degli dèi, forse l’ultimo sberleffo al più umano tra i condottieri del futbol, grande tra i più grandi, condannato a essere, per sempre, l’eterno secondo.
Era splendido, Puskas. La rappresentazione di un Mattia Corvino in calzoncini e maglietta. Carisma e regalità, intatte nonostante la divisa da dopolavoro. I principi di quella parte della Mitteleuropa sono sanguinari, uccidono i draghi, si bagnano nel loro sangue o perdono la vita. Niente vie di mezzo, come nelle fiabe (quelle autentiche) dei fratelli Grimm.
Nell’orda ungherese era suo il compito di buttarla dentro. Di sinistro, preferibilmente. E di potenza. I suoi pari, i suoi conti, i suoi boiardi erano sanguinari, spietati e idealisti. Manteneva, quell’orda, la poesia dell’uragano che gli Unni di Attila portarono con sè fino al capezzale dell’impero romano ormai consunto dal morbo della decadenza. Gli ungheresi non parlano lingue imparentate con nessun’altra in Europa. Sono i figli di Attila, sono figli del vento, conservano la barbarie di chi non può chinare mai la testa perché se perdi la dignità anche solo per quieto vivere, anche solo per una partita di pallone, nulla più rimane di te.
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Puskas era a Mosca quando, nonostante tante preghiere, tante minacce, tante blandizie Zoltan Czibor gelò Stalin e Berija segnando quel gol che avrebbe coperto di vergogna il calcio sovietico. Puskas era a Wembley nel ’53 quando l’Ungheria murò per sempre l’orgoglio inglese, sei a tre.
E Ferenc Puskas c’era anche a Berna, nel ’54, quando i capi dei capi decisero che la Germania Ovest avrebbe rubato quel mondiale di Svizzera che invece avrebbe dovuto donare a quella fantastica Ungheria il crisma della consacrazione della storia oltre a quella della leggenda. Correvano come treni, i tedeschi, sovralimentati in uno stupefacente spogliatoio.
Puskas non c’era a Budapest, nel ’56 quando il popolo insorse e l’Urss spedì i carri armati. Non c’era fisicamente, vero. Ma con lo spirito sì, tant’è che tra i ragazzi di Buda e di Pest si diffuse a un certo punto la voce che il Colonnello fosse morto sulle barricate. Raddoppiarono, triplicarono l’afflato ribelle. Ma Puskas era in ritiro con la nazionale, in Austria. Dopo quel massacro di vite e di speranze non tornò più in Patria fino a che dal tricolore magiaro non caddero la spiga, il martello e la stella rossa. Fu esule doratissimo al Real Madrid e divenne icona degli esuli di tutti i regimi d’Europa. Lottò e combatté fino a che l’oblio gli cancellò i ricordi. Giusto dieci anni fa se n’è andato, a Budapest.