I Canti della tartaruga di Daniele Giancane (Eva edizioni, 2016, pp. 48) sono innanzitutto un divertissement, un gioco, una lettura piacevole. Ventiquattro liriche dedicate alla tartaruga che circola liberamente nel piccolo giardino della propria casa possono sorprendere solo chi pensa che il poeta debba vestire sempre in giacca e cravatta. Ricordiamo che sono tanti i poeti che hanno dedicato le loro liriche agli animali e ciascuno ne predilige uno per segrete affinità o significato simbolico: da Catullo che cantava con grande tenerezza la morte del piccolo passero che allietava la sua amata Lesbia (“E voi piangete, Veneri ed Amori / morto è il passero della mia fanciulla / il passero, gioia della mia fanciulla”) a La cavalla storna di Giovanni Pascoli, muta custode di un delitto irrisolto (“O cavallina, cavallina storna, /che portavi colui che non ritorna; / tu capivi il suo cenno ed il suo detto!”); dai Gabbiani di Cardarelli che alludono all’irrequietezza del destino umano (“Non so dove i gabbiani abbiano il nido,/ ove trovino pace./ Io son come loro, in perpetuo volo.”) a Il gatto di Charles Baudelaire, che accosta per la sua sensualità il felino alla donna amata (“Vieni, mio bel gatto, sul mio cuore innamorato; /ritira le unghie nelle zampe, / lasciami sprofondare nei tuoi occhi / in cui l’ agata si mescola al metallo.”); fino a L’altra tigre di Borges che filosoficamente richiama l’inconoscibilità del reale (“Penso a una tigre. La penombra esalta /la vasta biblioteca laboriosa /e sembra allontanare gli scaffali;/ forte, innocente, insanguinata e nuova, / lei vagherà per la sua selva e il suo mattino / e traccerà le sue orme sul fangoso / margine di un fiume di cui ignora il nome.”). Ma che cosa rappresentano gli animali per il poeta? e, nello specifico, la tartaruga per Giancane? Certamente l’innocenza della natura che si oppone all’artificio della cultura, la vita colta nella sua immediatezza e semplicità. Il poeta si fa amorevole osservatore, naturalista attento, amico giocoso della piccola tartaruga: “Da quando ho saputo che ami il blu e l’arancione / (e disdegni tutta la restante / tavolozza dei colori), / non faccio altro che mostrarti / il cestino arancione della frutta / e una cartolina col mare blu. / Chissà, ami il blu / forse perché senti in te fremere / l’acqua in cui veleggiano / le tue sorelle tartarughe di mare. / E ti sdilinquisci dinanzi all’arancione / perché t’incanti ai tramonti / e a un lacerto di albicocca.” (Colori). O ancora: “Eppure a volte io l’ho sentito, / lo squittio della tartaruga. / Un verso roco, breve e ripetuto. / Un suono parente a nessun altro, / inconcepibile. / Tu canti, mia tartaruga, / quando corri a cercarti un riparo / dietro il vaso dei gerani. /O quando il vento smuove i limoni / penduli sull’albero alla leggera brezza.” (Il tuo canto). La nota dominante della plaquette è la leggerezza. Appena venata, qua è là, di sottile ironia: “Io lo so che quando ti afferro e t’alzo verso me, / accanto alla paura che ti coglie, / c’è pure un brivido d’affetto. / Di certo pensi, esterrefatta: / allora c’è qualcuno che mi ama, a questo mondo!” (Io lo so che m’ami). Il tono è colloquiale. Il poeta abbatte la troppo rigida barriera tra prosa e poesia e la vena lirica si mescola sapientemente ai dettagli descrittivi e alle notazioni filosofiche, dando alle poesie un ritmo carezzevole: “Noi due sembriamo così lontani / nella scala evolutiva. / Siamo diversi assai per pelle e carapace, per la tua testa rugosa e le mie mani prensili. /io umano, della schiatta di chi / ha costruito il Partenone, ha compreso alfine / la legge di gravità e che il tempo si dilata con lo spazio. / Tu limitata, minuscola, sempre frastornata e incuriosita. / Noi due sembriamo proprio diversi: io / mi dedico all’enigmistica, leggo Guerra e pace / e una strana inquietudine mi prende. / Tu ti acquatti dietro la verbena / e sei felice (forse). / Eppure ambedue siamo viventi in questo infinito cosmo, / due miracoli indicibili in cui scorre sangue e movimento / e abbiamo fame e sete, entrambi soffriamo il caldo, il freddo, la solitudine.” (Noi due). Ma la tartaruga col suo carapace si porta dietro non solo la casa, ma una grande metafora. Ed ecco che il poeta richiama il mito greco della ninfa Chelone, il paradosso logico dell’antico filosofo greco secondo cui la tartaruga batterà sempre Achille, il suo significato simbolico che allude alla lentezza e all’ozio. Per inciso, lentezza ed ozio sono proprio i valori riscoperti dall’ecologia. Come scrive il filosofo ecologista Christoph Baker: “La lentezza permette di riscoprire gesti, odori e suoni che l’accelerazione e la velocità ci avevano rubato. Come si fa a sentire il profumo di un fiore se uno ci passa accanto a cento all’ora?” (in Ozio lentezza e nostalgia). Nei versi di Giancane fa dunque capolino una nota critica nei confronti della società consumistica, del falso mito del progresso, poiché, come egli stesso nota nella prefazione al volumetto ironicamente intitolata “Dalla rivoluzione alla tartaruga”: “progresso è una parola vuota, si cambia ma non si va necessariamente verso un di più di felicità. Anzi.” L’ultima breve poesia della raccolta riassume magnificamente la filosofia di vita di Giancane: “Sei l’elogio vivente della lentezza. / Di una vita che non va di corsa, ma viene lentamente assaporata. / Tu, dentro quel carapace antico, forse sai la saggezza del mondo, / meglio di Hegel e Immanuel Kant, più di un guru tibetano / e ci pensi con un sorriso di compatimento.” (Sei una filosofa). Il poeta ci invita a distaccarci – almeno per un po’ – dalla folle corsa della modernità, manda al diavolo il rock (inteso come ritmo dell’esistenza) e strizza l’occhio al concerto grosso di Corelli (l’unica musica che ci dona serenità). Non ci salverà il tumulto, ma la grazia!