“Fai bei sogni” è il film di Marco Bellocchio, uscito nelle sale il 10 novembre, tratto dal romanzo omonimo di Massimo Gramellini. Se non fosse per la magistrale fotografia di Daniele Ciprì o per l’intensa prova di Valerio Mastrandrea; se non fosse perché Marco Bellocchio è un grande regista ci sarebbe una sola domanda da porre (da porsi) sul suo ultimo film. Perché Marco Bellocchio ha pensato a un film dal romanzo di Gramellini?
Il film “Fai bei sogni” è uno strano compromesso nel lungo processo di osmosi tra cinema e letteratura: ritratti di paesaggi e di personaggi, affermava Victor Slokswkj, sono nel cinema visioni letterarie in celluloide. Il cinema di Bellocchio, sin dall’esordio potente di “I pugni in tasca”, ha come temi la famiglia, la morte, la follia, la sessualità e la politica ripresi dentro un orizzonte spazio temporale occludente e dominato dalla frantumazione delle identità, sociali e individuali. Una scrittura cinematografica preziosa e ricercata in cui i piani sequenza traducono nel duale esterno/interno lo sguardo multiplo del cinema contemporaneo. Di dramma interiore racconta il romanzo “Fai bei sogni” di Massimo Gramellini (ed. Longanesi, 2012): un lutto, una famiglia che implode nell’ottusa e volontaria ignoranza della verità. Il tema è “bellocchiano” ma l’esito dell’incontro è poco felice.
Bellocchio cade nella trappola, annunciata in queste righe del romanzo del buon Gramellini “I film che preferisco sono quelli in cui il protagonista perde tutto, ma arrivato sull’orlo del baratro fa un passo indietro e incomincia la rimonta”. Si dia al regista e al pubblico la disperazione del personaggio ed ecco che la rimonta diventa per entrambi assai complicata.
La rimonta del regista. Bellocchio ha cercato di leggere, nella storia di una fallita elaborazione del lutto, l’idea dell’assenza. Vi è tutta la cifra del suo cinema: le inquadrature in soggettiva muovono i personaggi dal buio al buio, come fantasmi della mente del protagonista. Bellocchio è fedele a se stesso anche nel far dialogare sguardi e ambienti. La poesia del film risiede qui, nei particolari degli occhi ingranditi e allucinati di Barbara Ronchi (che interpreta la madre di Massimo), in quelli indagatori e mesti di Valerio Mastrandrea, nei primissimi piani di Piera Degli Esposti o di Fabrizio Gifuni. Facce e occhi che segnano distanze, dicono menzogne, cercano aiuto, si affacciano sul vuoto. Di marcato simbolismo l’insistenza sul dettaglio della finestra, vero orlo del baratro, che fa il paio con il trampolino di una piscina immersa nel blu. Forzato è il simbolo nell’inserimento di “esterni” dalla Storia: Tangentopoli e Sarajevo. La sequenza relativa a Tangentopoli colleziona affermazioni esistenzialiste lontane dall’intimismo tormentato e decadente cui il migliore Bellocchio ha abituato il suo pubblico ( “Bella addormentata” o “L’ora di religione”), anche quando la Storia irrompeva con vera e pura urgenza (“Buongiorno, notte”). Lo sguardo tagliente e lirico di Bellocchio nel film appare raro e sfocato, infine si spegne in un racconto controllato, “anaffettivo”. Il film viene risucchiato nel vortice di dialoghi ipnotici e il ripetersi delle parole morte e mamma inchioda la sceneggiatura a un ossessivo romanzo dell’orfano. Che è poi il libro di Gramellini e -oseremmo dire- la “funzione Gramellini”. Dell’ardua rimonta del maestro Bellocchio responsabile è il romanzo. Imbarazzante per l’ambizione di rendere (al netto di una storia personale degna di tutto il rispetto) epifania il concetto che verità e scrittura salvano. Da un romanzo, in cui il dolore resta bloccato nella messinscena del vittimismo e della zuccherosa resilienza del protagonista, si è rivelato davvero complicato realizzare un film capolavoro, nonostante un cast e una produzione di valore. La “poesia bellocchiana” resta sospesa nel vuoto della “prosa” di Gramellini.
La rimonta del pubblico. Il romanzo “Fai bei sogni” è stato un grande successo editoriale. Un giornalista, famoso volto televisivo, che fa outing del trauma di una vita magnetizza i lettori. Più Bambi che Oliver Twist, Gramellini riesce a toccare le corde delle più immediate emozioni, offre ai suoi sensibili lettori lacrime in forma di parole “ Un orfano di madre era meno attraente. Non aveva l’aura del titano solitario. Semmai del pulcino bagnato”, per poi donare perle di psicologia “Preferiamo ignorarla la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi.” Il film si discosta pochissimo dal romanzo pur non essendo come quello melenso, ma lascia il pubblico freddo e nella parte finale si rischia l’insofferenza. Una malinconia soffocante che solo la scena cult del ballo di Massimo-Mastrandrea riesce a stemperare. Il resto è solo un incontro ravvicinato tra lo spettatore e il dolore del protagonista. Un dolore profondo da cui il protagonista si difende ricorrendo al “non umano”, a Belfagor, il diavolo personaggio di una famosa serie televisiva degli anni ’60 che egli ribalta in angelo custode. Al termine del film anche allo spettatore tocca l’incontro con Belfagor. Il mostro, però.