Abbiamo simpatia per Piperno. Sarà per la sua passione calcistica: la Lazio. Sarà per un suo racconto in cui il nipote domanda, “Zio, perché sei così contento?” Risposta, “Perché Klose esiste!”. Piperno ha nel cuore le nostalgie proustiane e gli scatti di Keita, attaccante laziale. Abbiamo attenzione per Piperno quando scrive su Tolstoj, Stendhal, Flaubert. È un interesse nato dopo una sua lontana intervista, “Il romanzo fa capire la coscienza di un popolo.” E così incontriamo ora il suo, “Dove la storia finisce”, dedicato ad una famiglia romana moralmente smarrita, nevrotica, insoddisfatta.
Quando leggiamo Piperno abbiamo la sensazione di non aver mai smesso di leggere le sue pagine; basta poco ed ecco torna un clima narrativo composto di discorsività fluida, riflessioni icastiche, vere caratterizzazioni psicologiche. Come ci sembrò vero il suo primo romanzo, ‘Con le peggiori intenzioni’ in cui disegnò una sensiblerie borghese nella quale riconoscemmo un’Italia ormai priva di rotta.
Adesso. C’è un romanzo dedicato alla capitale italiana, un po’ alla Paolo Sorrentino, in cui avviene “la pacifica convivenza tra bellezza e squallore.” Matteo, il padre inaffidabile, dopo anni di allontanamento, torna con i suoi fallimenti professionali, i figli abbandonati, i capricci consumistici, le vergogne e gli abbagli. In particolare colpisce il contrasto tra le generazioni: da una parte, ci sono i nonni immacolati, che hanno creduto nel partito e nel lavoro, uomini anziani che rischiano di essere offesi da un’Italia scurrile in cui tutti non fanno che “smerdare le poche cose ancora immacolate.” Dall’altra, ci sono i figli fragili, incapaci di gestire i sentimenti e lo stress quotidiano.
Uno scrittore di successo è anche un po’ un moralizzatore; come Piperno che disegna personaggi che hanno spartito e consumato tutto, ossia personaggi “della promiscuità delle classi dirigenti.” E che piacere leggere l’ironia degli inciuci per cui “il figlio del noto penalista di formazione cattolica sposa la nipote del marxista eletto alla Consulta. Benvenuti in Italia!” Prima di tutto, benvenuti dentro le scene di “défilé dei soliti amici” con le comparse di un mondo progressista decaduto in cui persiste “una burocrazia di grand commis, amministratori delegati, direttori di rete, tanti venerabili quanto inamovibili.”
Forse in questo romanzo, con un ritmo costante, la salvezza è il ricordo, un tempo lontano semplice e pulito; il tempo in cui le amiche leggevano “coppie gemelle di un celebre libro di Mishima” dentro una tiepida cameretta. Ma il presente è grigio. Ansioso. I personaggi di Piperno finiscono nel purgatorio di un pronto soccorso. Oppure non si incontrano più. Scappano in un presente senza tempo. Affaticati dal lavoro. Come Giorgio che ha rinnegato il padre. Come Lorenzo confuso dalla moglie, Martina, trascinata dai suoi sensi saffici.
Anche questa volta, il microscopio narrativo di Piperno visualizza i batteri che circolano nell’anima delle famiglie. Il virus selezionato è quello dell’insincerità verso gli altri. Poi, nel momento in cui falsità e mondanità sembrano imbattibili, giunge il colpo di scena finale: un tragico attentato terroristico impone una tregua, il ritorno al padre, quasi ad una bontà inaspettata. E la famiglia allora si rimette in attesa. Nuova e doverosa attesa. Prima di trasferirsi in Israele, alle origini familiari, alle origini in cui è possibile tornare, da sempre.
* Dove la storia finisce di Alessandro Piperno (Mondadori)