Come può essere definito il Potere? E come può essere letto, nel Terzo millennio, uno dei concetti più controversi della filosofia politica ma anche più abusati nel dibattito quotidiano? Stefano Ricci ne parla ne Il Genio invisibile. Le teorie del potere del Novecento (Circolo Proudhon, p. 176) che è allo stesso tempo una corposa ricognizione sul modello dei saggi accademici, ma anche una godibile digressione storica sui rapporti tra società, individui ed istituzioni rispetto ad una delle formulazioni più problematiche e citate nella storia delle idee, dalla antica Grecia ai nostri giorni.
Il merito del volume di Ricci è però non solo nello sguardo analitico, ma nel punto di vista soggettivo che perciò include confutazioni ed obiezioni. Insomma, non è il consueto trattato di storia della filosofia politica che si limita alla classificazione di autori e dottrine. E Ricci non poteva fare altrimenti perché la nozione di Potere, pur essendo di antica formulazione, si materializza all’interno delle comunità delle singole fasi storiche e nel vivere associato mutando forma a seconda della geografia ed appunto dei tempi. Farne perciò una perlustrazione superficiale anche se cronologicamente completa non aveva senso visto che, in passato, i grandi autori della filosofia politica e della sociologia si sono dovuti confrontare con sfere pubbliche e ambientali diverse da quelle che percorrono la modernità.
Ecco perché Ricci si inoltra direttamente nel nostro tempo. Parte da Max Weber, vale a dire da colui il quale inizia a concepire i rapporti di potere in relazione a quello che consideriamo lo Stato moderno, fatto di divisione dei poteri, apparati amministrativi e burocratici, suddivisioni di tipo orizzontali e verticali. In una parola, quella particolare forma di Stato che si avvia a compiere la sua parabola nella complessità del mondo contemporaneo e a far mutare il concetto stesso di Potere.
Questo è il motivo di una ricognizione che Ricci fa tenendo la barra dritta su personali convinzioni, demolendo o adottando e facendo propri autori che possono apparire anche di ‘seconda fascia’: Guglielmo Ferrero e Morton Baratz ma anche, come dicevamo Weber, e poi Bertrand De Jouvenel, Bertrand Russell e Franco Ferrarotti, Robert Dahl e Foucault sono solo alcuni dei nomi.
Il suo modo di procedere desta interesse proprio per questo anatomizzare il tema del Potere partendo da visioni prospettiche diversificate e a prima vista non correlate. E così da ognuno di questi autori ne trae i versanti positivi ma ne evidenzia soprattutto i deficit. E lo fa con fermezza, come quando afferma che molte teorie sul Potere di questi ultimi decenni, appaiono ‘’confuse, caotiche e fin troppo parziali’’.
Ora è evidente che si può anche essere in disaccordo ma fronteggiare in maniera schietta presunti o reali deficit di giganti del pensiero è un atto di coraggio che apprezziamo. E soprattutto è azione consapevole il non attardarsi su concetti che definisce’derivativi’ quali la democrazia, la partecipazione elettorale, i sistemi di governo e così via, preferendo andare dritto al cuore del problema: il concetto di Potere, o meglio la natura del Potere nel Terzo millennio. E questo scendere in profondità nel nostro tempo senza attardarsi nella rivisitazione storica di antiche dottrine decrittando il tema dell’obbedienza, della sanzione, la nozione di legittimità, insomma leggere le teorie attraverso i fatti fondamentali e i rapporti ordinari ed esistenti, pone Ricci al riparo dai rischi di una ricerca confusamente accademica. Al contempo, offre la possibilità a lui, e di risulta ai lettori, di leggere da punti di vista particolari un concetto problematico e men che meno catalogabile in parametri definiti.
*Il Genio invisibile. Le teorie del potere del Novecento di Stefano Ricci (Circolo Proudhon, p. 176, euro 13)