Edita nel 2016 dalla casa editrice LietoColle, “A luce accesa” è la prima opera di poesia di Sara D’Ippolito, romana di trentasei anni, che ha al suo attivo una solida preparazione filosofica e la pubblicazione di alcuni testi di narrativa e di saggistica, tra cui citiamo “La prigione dolce, viaggio in monastero” (Samuele Editore di Pordenone, 2013), che è la cronaca di un’ esperienza di vita in un monastero ortodosso russo. Nella “notizia” in calce a questa silloge apprendiamo che l’autrice ha lavorato per più di dieci anni in teatro prima come attrice, poi come aiuto regista e che è interprete e traduttrice dal russo. Tutte queste esperienze senza dubbio hanno avuto il loro peso nella composizione poetica, agiscono come – riportiamo un suo bel verso – “un silenzioso sbriciolarsi delle pietre all’abbraccio del mare” (Il mare, in pausa – seconda parte). Il titolo della raccolta, non sappiamo quanto consapevolmente, fa un po’ il verso al primo libro pubblicato da Pound “A lume spento” (che è una citazione dantesca) e probabilmente allude a un tentativo di confessarsi oltre la maschera del teatro e del quotidiano:
“L’assurdità d’un Pulcinella
Di cartapesta come il babà
Che stringe nel pugno
Rispecchia esaustiva
L’improvvisa coscienza
Di me perduta nella via,
Vita a saldo che nessuno compra”
(Cronache dalla sera che scende)
La silloge consta di una settantina di poesie in versi liberi, di lunghezza quasi sempre contenuta in una pagina e distribuite senza soluzione di continuità fra tre sezioni, che rivelano una notevole padronanza del lessico, “una sorta di sapienza del verso” (Daniele Giancane) e un’attenzione ai piccoli dettagli della realtà:
“Ma stasera ogni sbilenca pietra
Della città invoca uno sguardo
Il filo d’erba storpio fra il selciato
Reclama il canto di un verso,
L’ode che rischiari il crepuscolo,
E anche il serrarsi delle botteghe
Vuol esser celebrato,
I gatti son tutti idoli antichi
E i ragazzetti famosi eroi.”
(Mezz’età?).
Da segnalare questa incisiva definizione della poesia: “Poesia è parola strappata alle onde della vita.” (Tempesta di carta) e i versi dedicati alla patria:
“canto il paese detto anche del bel canto
Che fu impero e ora è villaggio
Che fu arte e ora è museo
Ma chi dice che non si amano
Cose e persone al loro crepuscolo
E chi osa affermare
Che tempo e storia si arenano?
Come veliero abbandonato e splendido
Ti guardo ora paese
Che m’hai dato l’idioma
E questo amore incrollabile
Per la bellezza che mi perseguita.”
(Di quella che chiamavano patria)
Come pure riuscite sono alcune poesie d’amore (Nella mia camicia, Qualche vita fa, Notte priva di conseguenze), in cui si sente l’influenza dei poeti americani del secondo novecento, in particolare di Raymond Carver:
“Lei lo attese ma lui non lo sapeva
Lui la chiamò senza alcuna scusa
Lei gli credette e lasciò aperte le porte
Ma era un dialogo fra sordi il loro
E la perla tornò a perdersi nelle acque
E le acque si fecero torbide
E lui non ricordò il nome di lei
E lei perse la mano di lui
Perché non esistono le coincidenze
E banale fu il finale della commedia”.
(Notte priva di conseguenze)
Questa raccolta è certamente meritevole di attenta lettura. Tuttavia, non si può tacere che la resa poetica non è sempre fluida: tutte le esperienze della poetessa, gli incontri, gli amori, il mestiere di attore/regista, sono filtrati da un certo intellettualismo e l’intera raccolta ha alla fine l’andamento di un soliloquio, dà l’impressione di essere un po’ monocorde. Concordiamo, in definitiva, col giudizio del poeta e critico letterario Daniele Giancane, cui ci siamo rivolti per un parere più autorevole, secondo cui la poetessa, pur riuscendo ”a dar vita ad una silloge plausibile… è come se avesse scoperto un itinerario (fono-immaginifico) e lo ripeta sempre. C’è sovente una ricerca dell’effetto poetico e del finale che coinvolge. Insomma, c’è del mestiere, ma la poesia è ancora acerba”.
* “A luce accesa” di Sara D’Ippolito (LietoColle)