La Premier League inglese è stata vinta dal “piccolo” Leicester di Ranieri, alla prima vittoria nella sua storia; la NBA americana ha visto il trionfo di LeBron James con i suoi Cavaliers, anche loro alla prima vittoria di sempre. E le World Series di baseball statunitense sono state vinte dai Chicago Cubs, che per l’ultima volta avevano trionfato nel 1908. Insomma, è la stagione degli underdog?
La Premier League sempre più ricca
Sia NBA che Premier League hanno appena firmato nuovi contratti televisivi letteralmente da miliardi di euro, che è però solo il coronamento di una crescita costante. Un dato? La Premier League incassò dalle TV circa 4.5 milioni di euro per la stagione 1990/91; per il triennio 2016-19, incasserà complessivamente circa 10 miliardi di euro, ovvero quasi mille volte tanto ogni anno.
Se fosse uno Stato potremmo parlare di miracolo economico; e se le squadre della Premier fossero (come sono) delle industrie, sarebbe evidente lo squilibrio di capitali tra le realtà provinciali, come quella del Leicester, e quelle globali come Man Utd, Man City, Chelsea, Arsenal, Liverpool.
Ma coincidenze astrali fortunate a parte, quel che sta succedendo è che il livello di dotazione economica di una “piccola” è talmente alto rispetto agli altri campionati europei che questa può permettersi mercato acquisti (investimenti strutturali) e stipendi al livello di big italiane o tedesche. Contemporaneamente, gli stipendi delle “super” big inglesi sono a livelli tali che il surplus economico, la differenza per dire tra lo stipendio di un Ibrahimovic e di un Vardy, non rispecchia proporzionalmente una differenza sportiva, ma una differenza commerciale: il calciatore famoso è una star che garantisce alla sua squadra guadagni commerciali, più di quelli sportivi. Ma siccome sul campo tali stipendi non sono giustificati, l’aumento di risorse a disposizione di tutte le industrie calcistiche porta a un livellamento sportivo verso l’alto.
Il modello NBA
LeBron James è il giocatore di basket più forte in attività e nel basket si gioca in 5, non in 11, quindi l’incidenza dei campioni è ancora maggiore; eppure resta miracoloso come una delle poche squadre NBA a non aver mai vinto un titolo, con sede in una città depressa e pesantemente colpita dalla crisi, sia riuscita a costruire un cast di giocatori fortissimi, pagati profumatamente, attorno a LeBron. Anche qui i nuovi contratti televisivi faraonici permettono a tutte le squadre di essere competitivi sui giocatori “semplicemente” forti, equilibrando il piano sportivo. La scelta è voluta e studiata dalla NBA: per garantire lo spettacolo, quindi vendere bene i diritti televisivi, la competizione deve essere equilibrata e imprevedibile.
Incredibilmente ironico è però osservare come proprio i liberisti statunitensi, nel dover disegnare il campionato più competitivo e meritocratico del mondo, realizzino una iperregolazione quasi socialista. Stipendi minimi alti e legati all’anzianità, gestione centralizzata degli sponsor e del mercato interno dei giocatori, tetto salariale fissato rigidamente con multe pesantissime per chiunque lo superi: l’NBA è un paradiso socialista? No, ma è senz’altro la dimostrazione che se si vuole una competizione reale e stimolante sulla qualità è necessario disciplinare rigidamente sia le condizioni di partenza che gli investimenti; viceversa,i più forti saranno ancora più forti e premiati dalla rendita di posizione più che dalla ricerca della qualità.
La competizione non si regola da sola
NBA e Premier League non possono essere modelli industriali per settori differenti da quello sportivo e i prossimi anni li vedranno mutare e scivolare ulteriormente dallo sport all’intrattenimento; né possono ritenersi modelli politici. Tuttavia, rimane comunque interessante notare come in una tra le poche industrie in abnorme crescita come ricavi la competizione economica sia stimolata da regole chiare piuttosto che dalla libertà più esasperata, e l’arricchimento sia generale e sostenibile per tutti i suoi membri.