Ciao, Frank de Boer. Onestamente non credo che mancherai, ma nemmanco un po’, al disperato popolo interista. Ottanta giorni, tipo, è durata la tua avventura sulla panchina più bollente d’Italia. Nemmeno il tempo di imparare tre-quattro parole in italiano.
L’addio di de Boer avviene su scala planetaria, nel poco triangolo che unisce Pechino, Jakarta e Milano. L’Internazionalissima d’Asia ha imparato che i tempi e le decisioni – nonostante la globalizzazione di internet – sono sempre lentissimi, giusto giusto per caricarsi un’altra imbarcata di mazzate dalla Sampdoria di Giampaolo (che però, in fondo in fondo, è pur sempre una squadra interessante e non proprio l’ultima della classe).
I cinesi e l’indonesiano non hanno capito una cosa. E cioè che bisogna avere il coraggio di rifondare tutto e di chiedere pazienza. Lettore, magari interista, a questo punto mi avrai già mandato a quel paese. Ma ti invito a una brevissima riflessione: a botta di cambiare allenatori, di stravolgere la rosa (e di tenerti gente che con l’ambiente ormai hanno un rapporto più logoro della credibilità di Mauro Icardi nei confronti della Nord) cosa pensi che si possa costruire? Nulla, e lo sai pure tu.
De Boer, tecnico che ha fatto faville a Amsterdam, non poteva vincere granché a Milano. Con una squadra che non ha fatto lui (e manco Mancini), in uno spogliatoio in cui nessuno lo ascoltava più e in un ambiente tanto teso che, pare, pure il ringraziamento postumo a lui tributato dal giovanissimo Sienna Miangue è passato sotto la scure della censura e dello “Scusate, ma non l’ho scritto io”. Manco avesse augurato la morte a qualcuno.
L’Inter è una polveriera che, pare, non aver più né capo né coda. Ed è triste, in fondo, pensare che un altro campionato – appena iniziato novembre – già sia andato sostanzialmente in cavalleria. L’addio di De Boer, scontatissimo, non fa che confermare i peggiori timori. A meno che Montella non si inventi chissà che, Milano sarà (ancora) provincia piccina picciò del calcio che conta.