“Famous when dead”, era la scritta su una spilletta, strategicamente posizionata al bavero della giacca del giovane Morrissey. In quel ritratto in bianco e nero, l’allora cantante degli Smiths sfoderava tutta la strafottenza del loser: boccia di birra alle labbra e tirapugni nell’altra mano serrata, al solito ciuffo altissimo ed espressione indolente. Famoso da morto, epitaffio delle velleità giovanili e luogo comune per i tormenti d’artista, è sintesi efficace per introdurre l’agrodolce poetica della band di Manchester. Un mito pop persistente, con intrinseco stile ultra-britannico, cresciuto grazie alla messinscena di elementi contradditori, ambigui, refrattari alla moda, comunque mai riconducibili a banali stereotipi di successo. A differenza di altre stelle, cadenti al passaggio degli anni ’80, la vicenda degli Smiths sembra ancora avvolta in una incantata bolla atemporale, alimentata dalle ripetute voci di reunion, sempre smentite dai fatti. Chiaro che se i quattro musicisti dovessero cedere alle pressioni del music-business, rispolverando la vecchia ragione sociale dismessa nel lontano 1987, gran parte della magia svanirebbe. A maggior ragione in quest’epoca dove tutto è disponibile ed acquistabile, risulta massivamente prezioso ciò che non può essere messo nel carrello della spesa. Tant’è che ci si è organizzati con un profluvio di raccolte antologiche, agiografie libresche, trastulli vinilici, a fronte di soli quattro dischi originali ed un live emessi ai tempi. Il logo The Smiths d’altronde, foss’anche stampato sulla carta da culo, è pur sempre garanzia di morbose attenzioni.
Similmente ad un’altra band di culto inglese, i Jam di Paul Weller, gli Smiths perorarono cause politiche progressiste (l’odio per il primo ministro Margareth Tatcher e per la Corona, l’ambientalismo – nota la militanza animalista del vegetariano Moz – la simpatia per le periferie proletarie), pur adottando uno stile decisamente revanscista e conservatore (l’adorazione estetica per la vecchia Albione, il rifiuto delle innovazioni elettroniche in musica, una certa disposizione all’eleganza retrò). L’abilità nel mescolare riferimenti letterari alti – Oscar Wilde, Virginia Wolff, James Joyce, Charles Dickens – con l’attitudine da teppaglia di Suedehead, Mod, Skinheads, conferì charme al sodalizio, ammantando quello strano rock and roll malinconico di raffinata ritrosia. Per rare proprietà transitive, conferente fascino immedesimante pure al tipico ed adorante ammiratore della band, dipinto come emaciato, mellifluo, introverso, snob e tendente al radicalismo chic. In realtà, stereotipi a parte, il parterre potrebbe comprendere pure occhialuti botanici in Fred Perry, metallari in incognito, ragazzine piagnucolose, ultras da stadio, fioristi e parrucchieri eterosessuali, boy scouts bucolici, habitué di pub con pinta incollata alla mano, nonché il mesto postino (follower de Il Post) che non consegna più lettere d’amore, dacché internet ha fottuto ogni grazia.
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La vendetta dei perdenti, questo è stato l’oltraggio degli Smiths alla pubblica quiete anglosassone con tazza da tè e carta da parati, effigiata da un nome comunissimo che in italiano potremmo tradurre con “I Rossi”, e da una serie di copertine memorabili, vintage prima che il termine divenisse impronunciabile. Perché nei testi di Morrissey c’è qualcosa di patetico e auto-commiserevole, ma sempre bilanciato da un caustico realismo. Quel romanticismo della sconfitta, quel panegirico del rifiuto amoroso, fornirono a più generazioni un’ottima fonte d’immedesimazione, introspettiva e malinconica quanto immediata e reattiva. Voce lamentosa e, attorno, la superlativa chitarra maestra di Jonny Marr: semplice perfezione in grado di collegare senza impicci il plasticoso edonismo anni ’80 con la bicromia cinematografica anni ’50, il gotico vittoriano con lo sguardo dell’omosessualità militante (Derek Jarman). Si badi bene che in quegli anni, a parte gli Housemartins (in qualche modo affini) e pochi altri, s’andava giù pesante con la pianola sintetica e con la drum machine. Da ciò la collocazione reazionaria dei Nostri, talmente fuori moda da diventare classici, semplicemente grazie alla capacità di creare capolavori con vecchi arnesi, quali chitarra, basso batteria e poesia. Vezzi, come i fiori infilati nella tasca dei jeans o gli occhiali neri e spessi da intellettuale alienato; pose teatrali, ma di uno spettacolo di periferia come in un film di Ken Loach, tra ciminiere e mattoni rossi. Praticamente un romanzo di formazione per il brit-pop anni ’90: Blur, Oasis, Stone Roses, House of Love, Belle and Sebastian (ehi, quanto avete scroccato con quelle copertine sulla falsariga?), Supergrass, The divine Comedy… l’elenco potrebbe non finire più.
Ora lo scrivente, dato che il fanatismo sciocco scuce le asole dell’aplomb e pressa per la pubblica confessione, confiderà indegnamente le sue cinque canzoni predilette: Half a person, Handsome devils, Girlfriend in a coma, London e This charming man. Ovviamente quelle di oggi, domani potrebbe trattarsi di There is a light that never goes out, Girl afraid, William, It Was Really Nothing, What Difference Does It Make?, Some Girls Are Bigger Than Others, nemmeno si trattasse di lasciarsi scegliere senza opporre resistenza. In fondo è questione riguardante la gioventù, quindi una faccenda seria: quando quel Sabato sera di molti anni fa, alla discoteca con amici si preferì la solitudine della cameretta in penombra, mentre fuori le macchine sfrecciavano in direzione “divertimento”, sul piatto del giradischi girava The queen is dead. Fu la prima volta che trovammo consolatorio il pensiero di vivere in un mondo di merda.