Un focus sul referendum legato al tema dell’immigrazione i Ungheria, tappa dello smottamento a destra del Partito popolare europeo nei paesi dell’Est
Nell’ambito dell’agone politico del centrodestra, il Partito Popolare Europeo è spesso utilizzato nella retorica quotidiana per segnalare una certa distanza dalla destra più intransigente. Soprattutto parlare di Partito Popolare Europeo significa affermare una certa fede europeista, laddove l’aggettivo collima con la visione dominante all’interno dei circoli tecnocratici di Bruxelles e della Commissione Europea.
La storia politica di Fidesz
Eppure, anche se in pochi lo sanno, esiste un altro Partito Popolare Europeo. E’ quello di Viktor Orban, premier dell’Ungheria e del suo partito Fidesz. Tutt’altra pasta rispetto ai centristi nostrani, il primo ministro di Budapest è infatti visto al di fuori dei propri confini come un conservatore e un nazionalista intransigente.
Nonostante questa percezione Fidesz, movimento nato nel 1988 come “Alleanza dei Giovani Democratici” e fiorito prevalentemente all’interno delle Università, era sorto come una forza di ispirazione totalmente opposta, che si opponeva in maniera dura al regime comunista ungherese proponendo un modello liberale e libertario di stampo occidentale. Con il crollo della “cortina di ferro” Fidesz è riuscito a sdoganare la propria presenza sul panorama politico. Ma il successo elettorale ha eluso a lungo le speranze dei suoi giovani esponenti.
A metà degli anni ’90 il movimento vede l’emergere della figura di Viktor Orban, giovane giurista tra i primi fondatori del partito, che si propone come leader liberalconservatore e punta su un’opposizione ancora più dura al maggioritario Partito Socialista che, nel 1998, anno della consacrazione con la vittoria elettorale, si tramuta in esperienza di governo. Il primo Orban è a favore delle liberalizzazioni, dell’integrazione europea, della Nato, nella quale l’Ungheria entra nel 1999.
Finito il mandato nel 2002, Viktor Orban dovrà attendere otto anni per tornare a sedersi sullo scranno di primo ministro con la spettacolare vittoria alle elezioni del 2010, con la conquista di oltre i due terzi dei seggi parlamentari. E’ da quel momento che la politica di Fidesz cambia radicalmente. Il liberalconservatorismo lascia spazio a un più rigido nazionalismo: l’Assemblea Nazionale vede ridotto drasticamente il numero dei parlamentari e la Costituzione vede modifiche di stampo tradizionalista, con l’inserimento di riferimenti espliciti ai valori della famiglia e della fede.
Nel 2011 Orban da il via a un massiccio piano di nazionalizzazioni, o megli di “rinazionalizzazioni”: sotto il controllo statale tornano infatti i fondi pensionistici che proprio Orban aveva privatizzato nel suo primo mandato. Vengono inoltre introdotte consistenti tassazioni sui profitti bancari e finanziari privati.
Il rimodellamento nazionale della Banca Centrale Ungherese
Queste manovre sono il preludio alla decisione di contestare il principio di indipendenza della Banca Centrale Ungherese rispetto al Ministero delle Finanze, fino al punto in cui il governatore è venuto nuovamente a essere indicato dal Governo ungherese, che rifiuta inoltre di aderire al processo di ingresso nella moneta unica europea.
Ma le scelte di Orban sono anche motivate dal sentimento prevalente della popolazione, ovvero quello di un potente rigurgito del sentimento nazionale che porta Jobbik, movimento di estrema destra ultratradizionalista, a diventare il principale partito di opposizione con consensi oltre il 20% che vengono confermati dalle più recenti elezioni, quelle del 2014.
Il nuovo successo di Orban porta però a una sempre maggiore distanza dall’Unione Europea e a una sempre maggiore vicinanza a modelli alternativi, quale quello della Russia di Putin, tanto che lo stesso Orban viene a dichiarare in più occasioni come il suo modello di riferimento sia quello della “democrazia illiberale”, al quale egli accosta non solo la Russia, ma anche la Cina e la Turchia.
Eppure, nonostante il prevedibile criticismo di molti Paesi dell’Occidente, l’eterodossa (per i canoni eurocratici e progressisti) Ungheria di Orban è una realtà felice, economicamente parlando. Il Paese ha infatti visto diminuire costantemente e drasticamente il tasso di disoccupazione a partire dal 2010, pur in piena crisi economica globale.
La sfida di Orban ai dogmi di Bruxelles tuttavia non si limita all’aspetto economico e sociale ma anche alla gestione del fenomeno migratorio dovuto ai conflitti mediorientali. Il suo Governo è infatti fautore di una politica di rifiuto della retorica immigrazionista vigente nelle principali capitali politiche europee (Italia inclusa ovviamente, nda) e improntata a un certo pragmatismo, più che a un rifiuto ideologico del migrante in quanto tale.
Così lo scorso anno è partita l’edificazione del famoso “muro anti immigrati”, che è poi in realtà una lunga barriera fatta di filo spinato al confine con la Serbia, in aperta sfida al trattato di Schengen. Una misura che ha fatto inorridire la stampa liberal occidentale. Una decisione che ha però funzionato, fermando l’enorme flusso di migranti che, attraverso i Balcani, attraversavano l’Ungheria per introdursi in Europa. Una scelta che ha condotto oggi all’ultima battaglia, in ordine di tempo, del premier ungherese: l’indizione di un referendum per rifiutare le quote di ripartizione dei richiedenti asilo previste dall’Unione Europea.
Il referendum: tappa cruciale per la Nuova Europa
Il referendum, che si terrà nella giornata di domani, domenica 2 ottobre, sarà un momento molto caldo per i vertici europei. Paragonabile forse alla Brexit, pur se Budapest non ha lo stesso peso di Londra. Se la vittoria del “no” non è infatti minimamente in dubbio, a pesare saranno i dati di affluenza. Un’affluenza sotto il 50% indicherebbe un fallimento per il premier, che si esporrebbe così agli attacchi provenienti da destra, con Jobbik pronto a rimarcare la rischiosità di una simile operazione qualora un flop fornisse gli strumenti all’Ue per criticare le linee politiche ungheresi, e da sinistra con il Partito Socialista che si è prevedibilmente schierato contro la propaganda di Orban e potrebbe così vantare il disinteresse della popolazione per la questione.
Tuttavia, in caso di elevata affluenza o di percentuali bulgare, il segnale rivolto all’Europa sarebbe fortissimo e la piccola Ungheria potrebbe diventare un faro per tutte le voci fuori dal coro che sentono sempre più l’insofferenza verso questa Unione Europea e i suoi dogmi politici.