Chi ama e segue il cinema di Woody Allen accorre ad ogni nuovo film non con l’intento di cogliere qualcosa di nuovo e inaspettato, ma di aggiungere l’ennesimo tassello ad un puzzle che ha ormai mostrato il suo disegno e a cui abbiamo già accordato il nostro favore.
Forse, il regista dovrebbe essere più selettivo nella produzione dei suoi lavori, concedersi più tempo e non fare di ogni idea un film.
Ma Woody Allen non è Terrence Malik.
In contemporanea con l’uscita di “Cafè Society” nelle sale italiane (29 Settembre), vengono diffuse le prime indiscrezioni sul prossimo film(il quarantottesimo), mentre la sua prima serie tv è in arrivo.
Sembra che al regista non importi il parere della critica: questa anche quando lo elogia, precisa che i suoi capolavori sono già stati girati, che i temi sono sempre i medesimi, e che ogni protagonista maschile, immancabile, è un suo più o meno buono alter-ego.
Ciò che veramente importa è continuare a scrivere, girare e dirigere in maniera impeccabile attori accuratamente scelti.
Fare cinema è per lui tanto soddisfacente da non doversi costringere a fare del buon cinema.
Fatte rare eccezioni, poi, il suo è sempre buon cinema. Ci sono punte di eccellenza (come il pluripremiato “Io e Annie” o il più recente “Blue Jasmine”), così come film da dimenticare (“To Rome with Love”, per citarne uno), ma la sua produzione è composta in gran parte da film buoni.
In questa ampia porzione rientra anche Cafè Society.
Bobby(Jesse Eisenberg), ebreo, giovane e impacciato, da New York si trasferisce a Los Angeles per entrare nel paradiso di Hollywood, sperando nell’aiuto dello zio Phill(Steve Carell). Qui s’innamora perdutamente della segretaria Vonnie (una bravissima Kristen Steward), secondo uno schema comune ad altre pellicole alleniane.
Il loro rapporto ha alti e bassi e Bobby finisce per tornarsene a New York, dove ottiene tutto ciò che LA non gli ha dato: una moglie e un riconosciuto prestigio sociale, grazie al locale di moda che gestisce con il fratello gangster Ben (Corey Stoll).
Eppure la storia tra Bobby e Vonnie è destinata a riaprirsi, o a scoprirsi mai chiusa.
Chi conosce Woody Allen è abituato a queste storie d’amore: difficili a concludersi, impossibili a mantenersi.
Con risvolti tarati in maniera sempre differente, non c’è soluzione al mancato idillio; cionomostante bisogna consolarsi in un modo o nell’altro e accettare che non è mai detta l’ultima parola, senza sapere se questo sia un bene o un male.
Inevitabilmente i vari Alvy e Annie (da “Io e Annie”) arrivano ad un punto di rottura; altri, come Gil (protagonista di “Midnight in Paris”), per conservare la possibilità di un amore perfetto, vi rinunciano.
Alla seconda schiera appartengono Bobby e Vonnie perchè “Dreams remain dreams” (“i sogni rimangono sogni”).
Intorno ai protagonisti si muovono una schiera di personaggi secondari: alcuni, come la prostituta alle prime armi Candy (Anna Camp), o Leonard (Stephen Kunken), cognato intellettuale di Bobby, sono quasi dei caratteri; altri invece brillano nonostante la loro marginalità.
Come nel caso di Veronica, moglie di Bobby, a cui Blake Lively presta non solo la sua bellezza radiosa ma anche un fascino che non ha eguali.
Paragonata a lei, Vonnie è banale; Bobby ne è consapevole, e questo senza alterare i suoi sentimenti, mette in crisi la sua ragione.
Parallelamente, si racconta il mondo dello spettacolo degli anni Trenta, New York e Los Angeles, che come rivali danno il meglio di sè grazie alla fotografia di Storaro.
All’impatto visivo, curato nel minimo dettaglio, si affianca quello sonoro: il Jazz e la voce fuori campo dello stesso regista accompagnano le scene. I dialoghi, brillanti e ben strutturati, consentono molti sorrisi. Sono invece rari i momenti che portano alla risata. Anzi, sul finire ci si abbandona all’amarezza e la commedia si spegne rimanendo sospesa in un brindisi di Capodanno che, più che festeggiare l’anno venturo, sembra rimpiangere gli anni passati.