Né Sì, né No, nonostante mille e mille tentazioni. Achille Occhetto ha scelto, sul referendum, la strada filosofica della sospensione del giudizio. Ultimo segretario del Pci, traghettatore del “più grande partito comunista d’Occidente” verso la svolta democratica della Bolognina, è oggi un testimone (spesso contestato, da quelle parti) della fase decisiva della storia recente della sinistra italiana.
A Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, ha presentato il suo libro “L’utopia del possibile” dedicato alle fasi della transizione della sinistra italiana, nel periodo a cavallo tra gli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 fino alla sconfitta della “gioiosa macchina da guerra” nel ’94. Tra ricordi, ricostruzioni, ammonizioni e scontri politici, Occhetto ha trovato tempo per commentare il tema politico più scottante degli ultimi mesi.
“Stretto” al tavolo della manifestazione tra Antonio Bassolino e Gennaro Migliore, rispettivamente “alfieri” del No e del Sì, Occhetto si tira fuori – polemicamente – dalla bagarre referendaria: “Voterei ‘no’ ma non voglio che qualcuno vinca la guerra interna che s’è scatenata nel Partito democratico. Sarebbe un disastro”.
E aggiunge: “In questa battaglia c’è uno che chiede la fiducia (Renzi ndr) e un altro che cerca la rivincita personale (D’Alema ndr). Ho sentito tante sciocchezze, tipo quella secondo cui occorre votare per rifare la sinistra. Vergognatevi, così si offende un processo importante. Ma ve li immaginate De Gasperi e Togliatti che dibattono così sulla costituzione? Quelli erano alti dibattiti”.
Occhetto ha denunciato il malessere del confronto pubblico, puntando il dito contro le personalizzazioni e il liderismo: “Basta credere che la politica sia un’infinita disfida di Barletta. Bisogna smetterla pure di impostare il dibattito come uno scontro tra moderatismo obbligatorio ed estremismo impotente. Meglio perdere con le proprie idee che degenerare”.