Errare humanum est, perseverare diabolicum. O, se preferite un più dimesso e indulgente detto volgare, il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Confesso di aver pubblicato un altro libro: Lo specchio e l’alibi. Pagine di storia e d’altro, Palermo, Sellerio, 2016, pp. 264. E’ una raccolta di saggi, tutti riveduti con qualche inedito. Parla fondamentalmente del mestiere di storico e del rapporto fra storia e scienze umane, soprattutto l’antropologia culturale. La parte più interessante e/o divertente (e naturalmente la più discutibile) è la terza, in cui si affronta il tema dell’ucronia.
Questa rubrica ha la fortuna di avere alcune centinaia di persone che la seguono assiduamente e con le quali uso discutere i suoi contenuti. Mi piacerebbe discutere con loro del senso (e del non-senso) di studiare storia oggi. E’ evidente che questo libro ha due obiettivi polemici: il primo è costituito da coloro che pensano che davvero la storia sia specchio fedele e obiettivo del passato; il secondo da quanti la usano come alibi per giustificare le proprie scelte ideologiche.
Chiediamoci dunque che cosa significhi, oggi, fare quello che alcuni decenni or sono Marc Bloch, nella sua straordinaria Apologia della storia, poteva ancor definire “il mestiere di storico”. E’ ancora oggi un “mestiere”? E utile a chi, a parte a coloro che sono stipendiati per farlo? In fondo, l’interrogativo è sempre lo stesso: “Ma insomma, a che serve la storia?”.
Quando Bloch scriveva le sue belle, ancor oggi fondamentali pagine, il mondo credeva ancora che la storia servisse: anche se non si sapeva bene a che cosa. Ci credeva la scuola, che in tutto l’Occidente le assegnava il ruolo di materia formativa fondamentale; ci credevano gli stati e i popoli, che nella storia cercavano le radici della loro identità e il senso del loro più o meno “manifesto” destino; ci credevano gli studiosi e gli uomini di cultura (la parola “intellettuali” non era ancora venuta di moda), quasi tutti convinti – Nietzsche e qualche altro sconsiderato a parte – che essa avesse un senso, una ragione, un fine; ci credeva la gente di tutti i giorni, persuasa che “la Storia si ripete”, che “la Storia è Maestra di Vita” (con le maiuscole, mi raccomando) e altre dotte Verità degne tutte del Bar dello Sport.
Ci sono stati momenti nei quali la storia è stata importante: a scuola e altrove. Tutte le volte in cui la società si è incontrata con un progetto civile “forte” – non importa se giusto o sbagliato – e ha sentito o creduto di aver bisogno di eroi, di modelli. Come il medioevo dei comuni per il nostro Risorgimento, anche se i comuni medievali erano l’esatto contrario dello stato unitario e centralista scaturito dalle Guerre d’Indipendenza. O come la Roma imperiale per il fascismo, nonostante tutta la retorica grottesca di cui era imbottita. Comunque, nella storia, magari taroccata, si cercavano ispirazione e giustificazione. Ci s’identificava.
Oggi non è più così. Oggi si vive alla giornata, con molte preoccupazioni ma senza progetti. La storia come passato interessa sempre di meno, mentre come “presente in funzione del futuro” è disciplina emarginata e contestata; le grandi Istituzioni e Fondazioni pubbliche e private, accademiche oppure onorifiche, alle quali un tempo essa era affidata vivacchiano o boccheggiano; l’editoria storica specialistica di qualità è sempre più asfittica e quella divulgativa sempre meno affidabile in quanto è in crisi quella vera, buona divulgazione storica che dovrebb’essere – come ha detto Giuseppe Sergi, uno dei non troppi autentici storici rimasti nel nostro paese – “un filo diretto tra il mondo della ricerca scientifica e la società civile”; sempre meno sono i giovani che scelgono di dedicare alla storia la loro vita e le loro energie in quanto sempre più scarseggiano le possibilità di poter, così facendo, guadagnarsi dignitosamente di che vivere esercitando la professione del ricercatore universitario, dell’insegnante nelle scuole, dell’operatore culturale nei media.
Il fatto è tuttavia che della storia continuiamo ad aver bisogno: un bisogno progettuale. Con la fine delle ideologie “tradizionali” ereditate dal Sette-Novecento e l’affermarsi di sistemi di pensiero nuovi, fluidi, che sono sovente ancora delle “cose” in cerca di “parole” in grado di definirle, ci siamo scoperti finalmente davvero “liberi” sul piano concettuale, mentre lo siamo sempre di meno su quello sociale, economico-finanziario, politico e perfino esistenziale. Siamo sempre meno liberi di “fare” e di “produrre” – anche perché certe cose stanno diventando tecnicamente parlando sempre più difficili e specialistiche – però in cambio sempre più liberi di “pensare”, anche se pochi in realtà scelgono di farlo. Ma sulla base di quali princìpi “obiettivi”, sotto il profilo tanto etico quanto scientifico-culturale, ora che le “certezze” deterministiche – ch’erano magari, evidentemente, illusioni – ci sono state strappate? “Liberi”: ma di fare che cosa, di andare dove? La nostra “libertà” somiglia sempre più dannatamente a quella di un naufrago aggrappato a un relitto in mezzo a un oceano magari provvisoriamente calmo, ma nero in una buia notte priva di luna e di stelle. Gli strumenti che la tecnologia contemporanea mette a nostra disposizione per interrogare il passato sono sempre più numerosi, raffinati, sofisticati: ciò accresce tuttavia le nostre possibilità di scelta, di esercizio esegetico, non il nostro bisogno di sicurezza.
Ecco allora l’utilità, anzi l’essenzialità, di una ricerca storica all’insegna dell’assenza di certezze; all’insegna del “disincanto” insegnatoci da Max Weber; all’insegna della consapevolezza che la storia può ben avere un fine (e una fine) sul piano metafisico, per chi di noi è credente nel Dio di Abramo: ma che tale fine è per noi tutti inconoscibile, mentre uno scopo immanente, una direzione “razionale”, quel che i greci chiamavano un télos, gli accadimenti che si susseguono nel tempo non ce l’hanno.
La nuova storia la stiamo costruendo come ha intuito David Landes, “al condizionale”, con tutti i “se” e tutti i “ma” possibili e immaginabili: come esegesi continua del passato proposta nel presente in funzione di un futuro in incessante evoluzione dinamica. Abbiamo rinunziato a credere nel “progresso” storico: però crediamo nel “processo” storico. Cioè nella serrata dialettica tra i condizionamenti impostici dalla natura e dal nostro passato di esseri umani da una parte, la volontà di persone e di gruppi che di continuo propongono le loro contrastanti soluzioni dall’altra e infine l’arbitrario e terribile gioco del Fato classico, dell’”Imponderabile” di Vilfredo Pareto, insomma di quello che, nell’Esodo, i maghi di Faraone impressionati dalla potenza della “magia” di Mosè chiamano ezbà Elohim: il Dito di Dio. In altri termini, se proprio lo vogliamo dir chiaramente, non è che la storia cambia: il passato è passato; il punto (e il fatto) è che cambiamo noi, cambiamo eccome. L’interrogare di continuo questa realtà sempre cangiante, il riconsiderarla e reinterpretarla senza mai stancarsi (altro che “revisionismo”…), è la sostanza – e la dignità – del “mestiere” degli storici del XXI secolo.