In occasione del 150° Anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia, negli spazi di Palazzo Cominelli a Cisano di San Felice del Benàco (Brescia), organizzata dalla omonima Fondazione, è in corso sino al 2 ottobre 2016 la mostra dal titolo: Il Giappone di Fosco Maraini Immagini, appunti, progetti, dedicata al famoso orientalista. Figura complessa e poliedrica quella di Fosco Maraini (1912 – 2004): etnologo, antropologo, orientalista, alpinista, fotografo, scrittore, esploratore e poeta. L’esposizione si focalizza sul legame profondo di Maraini col Giappone, una Paese e un Popolo che hanno inciso in maniera determinante su tutto il suo percorso esistenziale e culturale.
Per noi che siamo tra i tanti che considerano il nostro Giuseppe Tucci (1894 – 1984) il più grande conoscitore dell’Asia nel Novecento, un personaggio come Maraini ci suscita puntualmente reazioni contrastanti. Di cose buone su di lui se ne potrebbero dire parecchie; di negative sostanzialmente una: l’aver parzialmente rinnegato il suo Maestro, Tucci per l’appunto, senza cui il Mariani orientalista non sarebbe presumibilmente mai esistito. Parliamo di fatti, non di illazioni, come quando nel gennaio 1937, apprendendo casualmente che Tucci era in partenza per il Tibet, Maraini gli scrisse, offrendosi come compagno di viaggio con pratica di fotografia. La sua proposta fu accettata ed egli venne aggregato alla spedizione diretta nell’Alto Sikkim. Maraini, malgrado malumori e differenze caratteriali, seguì Tucci anche nel 1948: questa era ben l’ottava spedizione organizzata dall’Esploratore del Duce (così taluni chiamano oggi in modo un po’ provocatorio il Professor Tucci) in Tibet, sempre in virtù delle sue capacità “tecniche”, diventando in sostanza il suo fotografo di fiducia. Grazie alle inestimabili conoscenze maturate al seguito di Tucci, Maraini poté scrivere Segreto Tibet (1951), un testo che lo fece conoscere al grande pubblico. In generale, tutta l’Asia venne spiegata da Tucci a Maraini, tanto che quest’ultimo, dal focoso e orgoglioso carattere fiorentino, si scelse una cultura dove quell’ingombrante Maestro non fosse ancora “arrivato”, il Giappone; sebbene ciò non sia completamente esatto, ma sui rapporti tra Tucci e il Sol Levante se ne potrebbe parlare a lungo, finendo, purtroppo, nella politica. Ragion per cui, ci limiteremo a questo accenno. Una piccola nota “polemica” la sentivamo come dovuta, così da ristabilire almeno una parziale verità. Detto questo, a scanso di equivoci, diciamo subito che riteniamo Fosco Maraini uno dei più brillanti yamatologi della epoca moderna.
Le vicende che portano Maraini in Giappone risalgono alla fine degli anni ’30. Nel 1938, ottiene una borsa di studio per ricercatori stranieri messa a disposizione dalla Kokusai Gakuyū Kai (una agenzia del Governo Giapponese), per diventare successivamente docente di Lingua Italiana alla Università Imperiale di Kyōto (1941 – 1943). Nel 1939, si trasferisce con la famiglia per un periodo a Sapporo, nell’isola di Hokkaidō, e inizia a studiare l’arte, la religione e la cultura degli Ainu, conosciuti altresì col nome di “Popolo Bianco”. Questa esperienza lo convince definitivamente a dedicarsi alla ricerca etnologica sulle culture orientali. Nasce in quel momento il suo grande amore per questa misteriosa gente dai riti sciamanici, gli autentici abitatori dell’Arcipelago Giapponese, diventandone il massimo esperto a livello mondiale. Almeno in questo, nell’aver raggiunto un personale primato sull’Asia, Maraini riuscì a eguagliare l’“odiato” Maestro.
L’esposizione presenta numerose e splendide fotografie – perlopiù in bianco e nero – che si riferiscono in particolare al Giappone degli anni ’50. In esse, si mostrano: templi, riti e cerimonie religiose, ritratti e paesaggi. Il Maraini fotografo risulta essere una sorprendente “confessione” per chi lo conosce esclusivamente nel modo propagandato dalla Accademia. I suoi scatti rivelano l’animo di uno studioso inconsciamente antimoderno, ritraendo la Natura, ma pure molteplici momenti della Tradizione nipponica, insieme a quelli della sfera intima di questo Popolo. La modernità? Non pervenuta in Maraini, basta avere la capacità di guardare e lo si comprende facilmente.
Agli scatti fotografici sono accostati alcuni dei taccuini nei quali Maraini annotava i propri appunti, accompagnandoli con schizzi, disegni e schemi. La essenza dei suoi studi permette di intraprendere un viaggio attraverso l’anima del Giappone, parlandoci di uomini e donne, delle loro storie, vivendo questa complessa Nazione in prima persona e non in modo asettico come avviene negli scritti universitari odierni.
Le origini anglo-polacche della madre gli consentono di alternare riflessioni in italiano e in inglese, a cui accosta schizzi e collage. In questi suoi scrapbook sono incollati ritagli di giornale, cartoline, inviti e persino quei biglietti da visita, i meishi (名刺), che sono uno strumento fondamentale nelle relazioni interpersonali nell’Arcipelago. Il suo composito metodo di lavoro, tra lo scientifico e il narrativo, la sua inesauribile curiosità e la pressante necessità interiore di comprendere a fondo la realtà che lo circondava; tutto questo fa dell’opus yamatologico di Maraini un qualcosa di unico in Occidente, a dispetto di quanto strombazzato dai cattedratici americani, i quali asseriscono di averla scoperta loro l’orientalistica, ignorando colpevolmente gli imprescindibili contributi di: Matteo Ricci, Alessandro Valignano, Matteo Ripa e, avvicinandoci ai nostri giorni, Felice Beato, Edoardo Chiossone, Antonio Fontanesi, Mario Marega, sino a Pio Filippani Ronconi, Giuseppe Tucci, Mario Bussagli e Maurizio Taddei; non dimenticando poi quel sublime tuttologo che fu Angelo De Gubernatis, nonché il folgorante “autodidatta” Julius Evola. Di questa sontuosa famiglia intellettuale, Fosco Maraini fa parte di diritto.
Egli ebbe, unico tra i suoi colleghi italiani, la fortuna di essere tradotto in varie lingue, specialmente in inglese, facendosi conoscere a livello internazionale. Uno studioso particolare, fotografo-etnologo, forse ancor prima che yamatologo. Con la fotografia egli carpiva delle immagini epitome della società del Sol Levante, che poi cercava, spesso riuscendoci, di sviscerare tramite la scrittura nei significati più nascosti. A tal proposito, in esposizione ci sono alcuni suoi taccuini mai mostrati sinora al pubblico, insieme a delle agende i cui appunti e disegni sono in seguito confluiti in Ore Giapponesi (1957), la sua opera più importante; uno dei migliori testi sul Giappone scritti nel Secondo Dopoguerra.
Da segnalare l’ultima sala del percorso espositivo, dove si dà testimonianza di un progetto a cui Maraini lavorò a lungo e che non riuscì mai a concretizzare, alcune schede preparatorie per un dizionario e un libro sui kanji: i caratteri cinesi utilizzati nella scrittura giapponese. “La presenza sibillina, alchemica, bellissima degli ideogrammi è il primo indicatore che segnala a Clé (il protagonista del romanzo autobiografico Case, amori, universi [Mondadori, 1999], N.d.R.), che il viaggiatore sta ‘davvero saltando oltre i valli del mondo indoeuropeo’”. Sarebbe stato interessante vederlo alle prese con la lingua nipponica, lui che a essa, finanche la Letteratura, aveva sistematicamente preferito gli individui.
Questa mostra si attesta quale una rarissima, quanto inedita, occasione che viene offerta ad appassionati ed esperti, per approfondire il lavoro di Maraini sul campo, quando antropologia e poesia trovarono in questo eccentrico fiorentino una armoniosa sintesi. Il tutto proviene dall’imponente patrimonio documentario custodito presso il Gabinetto Scientifico Letterario GP Vieusseux di Firenze, a seguito della donazione fatta dallo stesso Maraini nel 1997 del suo archivio personale, composto da corrispondenze, manoscritti, ritagli di stampa, fotografie e da circa 9000 volumi in tema orientale e oltre 100 mila fotografie!
Ribadiamo, infine, che Maraini è stato uno dei più notevoli studiosi della cultura e società del Sol Levante. Non solo il primo a far conoscere gli Ainu al resto del mondo, ma pure l’affascinante universo delle Ama: le pescatrici di alghe e awabi (un mollusco chiamato abalone) delle isole Hegura e Mikuriya, al largo delle coste centro-occidentali del Giappone. Queste singolarissime donne sempre sorridenti che nuotano praticamente nude; un inaspettato contrasto in quel Paese della Tradizione tanto caro a Tanizaki Jun’ichirō, fatto di una femminilità “nascosta” nel buio delle ombre e dalle forme celate dai kimono.
In Incontro con L’Asia (1973), Mariani scrive: “Il Giappone per me non è più una cosa che si prenda o si lasci; è una frazione del sangue, un’essenza delle selve interiori”, e lo si percepisce chiaramente in tutto quello che lo ha legato al Giappone. Un grande studioso, un Italiano come oggi non ce ne sono più a far ricerca e a scrivere, per divulgare.