Francesco Totti ne ha fatta un’altra. Assist e rigore al 93esimo, il Capitano (perché tale è per i romanisti, a lettera maiuscola) riesce nel miracolo di far segnare quel cioccolone di Edin Dzeko e poi si piglia la soddisfazione degli undici metri regalatagli proprio dal bosniaco. Consegna così alla Roma la vittoria sulla Sampdoria, inchiodata da ottanta minuti di pioggia, grandine, fulmini e saette. Prima da Giove e poi dal dio Pupone.
Spalletti, truce console con ius vitae ac necis su tutto lo spogliatoio giallorosso, si gode le delizie del suo arcinemico mentre, adesso, i romanisti adoranti gongolano e i numerologi studiano formule algebriche, ricordano statistiche, mettono in fila esempi, segnali e signa. Segna – tanto per continuare giochi di parole – da ventitré campionati, ininterrottamente. È a una sola segnatura dal record di 250 reti in campionato. Negli ultimi minuti è devastante come nessun altro. È un simbolo e vende, ma non si vende. In tv, su Premium, Totti si chiede candido: Perché smettere? E vagli a dare torto.
Che lui sia fortissimo, nonostante l’età è fuori discussione. Però se può continuare a giocare ad alti livelli è perché alla fine, la Serie A è un po’ l’ombra del “campionato più bello del mondo” a cui giovanissimo Totti impose il suo talento, la sua foga e il suo carisma. Ma anche questo è argomento vecchio, trito e ritrito e ormai è più noioso di una tavola rotonda sui trigliceridi. Finché la Roma va, lasciala andare.
Roma è ai piedi del Capitano che si trasfigura nel dio degli ultimi minuti. Nel refugium peccatorum che riscatta gli sbagli di una Roma che non sa ancora se vuole vincere, pareggiare o perdere. E aspetta trepida il miracolo del Pupone, calciatore a fine carriera (in teoria) e miracolista taumaturgo in servizio permanente effettivo capace persino di resuscitare uno smorto lungagnone di legno come Lazzaro Dzeko, per sollevare le braccia al cielo.
@barbadilloit