I Passaggi di Parigi, all’interno dell’opera omnia di Walter Benjamin, sono, nella illuminante definizione di Filippo Laporta, “uno Zibaldone incompiuto”, “un ipertesto affascinante” di riflessioni sulla autoproliferante modernità. Parigi riveste, per il filosofo tedesco, il centro ideale in cui è più evidente il cambiamento epocale legato all’ascesa della borghesia. I passâges, la mutazione urbanistica di Haussmann, i grandi magazzini, la moda, l’art nouveau, sono tutti aspetti del progresso galoppante che Benjamin attraversa da curioso flâneur.
“Botanico del marciapiede” (Baudelaire, Les fleurs du mal ) o “licantropo inquieto che vaga nella selva sociale” (Poe,The Man of the Crowd), il flâneur, secondo Benjamin, è figlio della mercificazione dello spazio e del tempo nell’era del nascente capitalismo e, nello stesso tempo, partigiano della resistenza contro la logica del guadagno. Tra la frenesia della folla cittadina, il passeggiatore solitario, gemello del dandy, animato da un innato estetismo, si aggira senza meta, cogliendo le contraddizioni di una modernità ostentata e vorace. Insieme a Baudelaire, Poe e Benjamin, altri autori Rilke, Walser, Aragon, dedicano alla figura del flâneur memorabili pagine. Fa della flânerie un mestiere, Roberto Arlt, considerato, con Borges, il più grande scrittore argentino. In lunfardo, un misto di castigliano e italo-tedesco -questi ultimi due furono i suoi idiomi familiari- scrive Le acqueforti di Buenos Aires. Un affresco della vita vera che scorre per le brulicanti vie della capitale argentina in caotica espansione. “Sognatore ironico e scettico”, a metà strada tra filosofo, investigatore e giornalista, Arlt si perde nella umanità più varia, racconta mestieri (il Riparatore di bambole, la Stiratrice, il Guardiano della soglia in canottiera, il Mercante di cavalli, l’Orologiaio pensieroso, il Farmacista furbo); illustra eccentrici personaggi (il Ficcanaso Menagramo, l’Uomo che se ne frega, lo Squenun e il Fiaccun, scioperati che poltriscono filosofeggiando, il Garronero, lo scroccone, Quello che non si sposa mai, Fomá Fòmič-l’invidioso, il Malato di professione, l’Innamorato strabico); descrive luoghi tipici (il Teatrino del varietà del centro, rifugio di ladri e malfattori, Caffè malfamati). Figli di un Dio minore, oscuri presagi di un futuro incombente su un passato che si rifiuta di dileguarsi, tutti questi soggetti diventano figurini in chiaroscuro delle acqueforti di Arlt. La città, corpo vivo e tentacolare, si trasforma in metafora di una modernità insidiosa e distruttiva. L’immagine delle venti gru abbandonate “che minacciano il cielo con le loro braccia attorcigliate di catene”(Gru abbandonate nell’isola di Maciel) sembra preannunciare un’apocalisse, una catastrofe planetaria che cancellerà ogni traccia di umanità. A poco a poco la visione della città contemporanea sempre più spossessante e spaesante prende il sopravvento nell’immaginario comune. L’urban sprawl sconfinata, senza centro, di cui è impossibile tracciare una mappa o delle coordinate, assume i connotati di “un infinito limitato, un labirinto dove non ci si perde mai” (Abe Kobo in La mappa bruciata), o di “un inesauribile emporio di cose frantumate” (Paul Auster in La città di vetro).
La pantopolis del futuro, Tokyo di Kobo o NewYork di Auster, è un non-luogo indecifrabile e temibile che i detective walkers protagonisti dei due romanzi attraversano tra una folla anonima: la flânerie, che comportava il gusto del vagabondaggio, ha ceduto il testimone alla Deriva Psicogeografica, teorizzata da Guy Debord, un errare senza meta per i quartieri urbani con effetti stranianti sulla personalità. La città futura, sostengono gli esperti, ha la forma del rizoma, un modello labirintico complesso i cui punti sono uniti da impensabili fili di Arianna costituiti dalla rete informatica o dalle app. In questo ambiente ipertecnologico, non c’è più spazio per il flâneur. Il nuovissimo cyberflâneur non passeggia, naviga apatico nel web, credendosi onnipotente dominatore della rete ma essendone in realtà prigioniero. Ma poiché al peggio non c’è mai limite: può oramai capitare di imbattersi in un’ultimissima versione di flâneur: un tizio di mezza età, baffobarbuto, cellularemunito, dopo aver girovagato a lungo per le vie di Bari, è stato visto esultare alla maniera di Archimede: era il cacciatore di Pokémon da strada. Con buona pace di Baudelaire & company!