Alesa è un cacciatore di uomini russo con un piccola macchia nera che gli inquina la vista. Un fastidioso disturbo psicosomatico o, più probabilmente, una voragine con vista sull’anima consunta di un killer di lungo corso e vecchia scuola, forgiato dall’implacabile ferocia di una eterna guerra per bande. Ha iniziato da piccolo a impilare omicidi, Alesa, prima di disciplinarsi agli ordini di Rakov, il boss da cui, infine, vorrebbe sganciarsi. Ma soltanto dopo aver portato a termine un ultimo lavoro: uccidere una donna, a Milano, con l’aiuto dello sconosciuto ed enigmatico Ivan.
Ci fermiamo qui, a beneficio del lettore e del suo diritto alla sorpresa, nel ricalcare il dedalo narrativo di “Spy Story Love Story” (Einaudi, 2016), ultima fatica di Nicolai Lilin, brillante scrittore siberiano classe 1980, noto al grande pubblico per lo straordinario successo del romanzo d’esordio “Educazione Siberiana” (Einaudi, 2009). Il titolo non tragga in inganno: nessun intrigo cervellotico (e postmoderno) e nessuna melassa romantica. Al contrario, il romanzo si dipana avvolgente e lineare, fra personaggi complessi, colpi di scena ben distribuiti e lunghe pause introspettive che lo appesantiscono solo in minima parte. La trama regge senza inciampi così come reggono il protagonista, Alesa, quarantacinquenne lupo solitario con una umanità nascosta nell’amore per i libri, e i personaggi di contorno, da Ivan alla predestinata vittima Marta, tessere di un mosaico che il lettore ricostruirà integralmente solo negli ultimi capitoli. A pochi passi dalla deflagrazione finale.
Sia chiaro, “Spy Story Love Story” non possiede la stessa potenza narrativa di “Educazione Siberiana”, insuperata auto-fiction capace di vibrare ad un’altra frequenza. Ma Lilin ha sempre, dalla sua, oltre ad una buona penna, due ottime carte da giocare. La prima è la storia recente della Russia, miniera inesauribile di ispirazioni, che in nulla si apparenta a quella sepolcrale e mortalmente noiosa del bolso Occidente. Mentre a queste latitudini, infatti, tutto declinava in patinate vicende da reality, la Russia post comunista conosceva una stagione di trapasso verso un nuovo ordine sociale ed economico, spesso rivisitato in salsa criminale.
“Per arrivare molto in alto, con molti soldi e molto potere – scrive Lilin -, qualsiasi mezzo andava bene, escluso il lavoro. L’intero Paese si trasformò in un bosco selvaggio invaso da predatori affamati”. In altre parole, l’ascesa dei grandi gruppi criminali sul palcoscenico del capitalismo all’occidentale, con le sue “basi semplici da comprendere e facili da amare”. Fu questa, tornando al libro e alla sua componente immaginaria (ma non troppo), la selva criminale di omicidi e torture che partorì l’immensa fortuna del superboss Rakov, collocandolo in cima alla piramide insanguinata e costringendolo però ad un passo ulteriore: imporsi sulla scena politica per proteggere e rilanciare se stesso.
E qui il lettore si prepari a contraddire quel riflesso pavloviano che lo spingerebbe, d’istinto, a vedere nell’efferato Rakov una sorta di alter ego del mai nominato Putin. Ogni scrittore del mondo libero – possiamo dirlo senza tema di smentita – se la giocherebbe così, con un omaggio untuoso al politicamente corretto. Ma non Lilin e questa è la sua seconda, grande virtù. Nel romanzo, Rakov è infatti il nuovo Kennedy, l’avanguardia dell’opposizione libera, il golem fabbricato e riverniciato d’arcobaleno da un Occidente pronto a rivenderlo sul palcoscenico globale come la nuova speranza democratica. Una trovata provocatoria? No, semplicemente la trasfigurazione narrativa di una inconfessabile demonìa geopolitica che, a tutte le latitudini del globo, dal Medio Oriente alla Russia, è ormai diventata regola nell’agire delle democrazie avanzate. E Lilin, anziché tacerla, la getta lì, con la massima naturalezza, nel cuore di un intrigo avvincente di amori e di spie. E di verità scomode.