A Roma una valanga di dimissioni s’è abbattuta sulla giunta Raggi. Questa è la lettura che arriva da molte parti, il sindaco capitolino sta perdendo pezzi e il Movimento Cinque Stelle si dimostra inadatto a guidare una capitale. Probabilmente ciò sarà esagerato però nella raffica di addii c’è un dato che non può essere ignorato: il M5S è ostaggio di se stesso.
Al centro della polemica c’è il caso legato a Carla Romana Raineri, nominata capo di gabinetto e poi revocata su “consiglio” dell’Anac. Anzi, prima che arrivasse il benservito, il magistrato ha preferito andarsene da sè presentando le dimissioni. Con lei ha lasciato il Campidoglio pure l’assessore al bilancio Marcello Minenna. Un pezzo da novanta, quest’ultimo, dato che secondo il Corriere sarebbe addirittura in predicato di diventare Ministro dell’Economia qualora Luigi Di Maio diventasse un giorno premier.
E sempre stando a quanto riporta il quotidiano di via Solferino, nel retrobottega della vicenda grillina starebbero già sibilando le sciabole delle correnti, dei gruppetti. Cosa che il M5S non potrebbe tollerare e se fosse vero nemmeno ammettere, per suo stesso (non) statuto. Però, a volerla veder almeno grigia, il caso Roma rischia di travolgere gli aspetti fondanti, tradendo i limiti intrinsechi alla formazione grillina.
Se basta un documento per silurare all’istante una delle persone maggiormente “di fiducia” si crea un cortocircuito potenzialmente devastante. Cosa farebbe la Raggi se, domani, l’Anac le contestasse un qualsiasi cavillo regolamentare? Da una parte dovrebbe ottemperare alle indicazioni dell’autorità anti corruzione, saziando le rivendicazioni antisistema e giustizialiste del suo elettorato, ma dall’altro dimostra di non aver avuto abbastanza fiducia negli uomini e nelle donne che lei stessa ha scelto. Uno iato che è potenzialmente pericolosissimo sotto il profilo politico.
C’è da rimarcare che, in ogni formazione sociale, si distinguono sempre gruppi e formazioni al suo interno. Fossimo in vena di paragoni folli, siamo tutti irrazionalmente federalisti. È forse un istinto che ci si porta dietro dal tempo in cui ci si divideva in poleis e ci si univa solo davanti al mostro persiano. È naturale, perciò, che in un movimento che ha responsabilità di governo e gode della fiducia di milioni di cittadini, si creino delle correnti. E dove ci sono le correnti c’è partito. Non è una brutta parola, nonostante venti e passa anni di malastampa su una parola (e un’istituzione) in sè neutra.
Il Movimento Cinque Stelle, a Roma, si gioca la battaglia più importante. Ricordate quando si disse che “avrebbero fatto vincere la Raggi” per poi tentare di smontare il Movimento? Alludere a una presunta volontà di perdere è stato un modo poco elegante per nascondere – sia a destra che a sinistra – una clamorosa emorragia di consensi, non c’è stato complotto dietro la pulitissima vittoria grillina a Roma. Però è naturale che il potere logori. La prova del nove, per i pentastellati, è tutta qui.Dimostrare maturità senza entrare negli schemi dei vecchi affittuari del vapore.
Ma soprattutto, senza crearsi da solo delle nuove e spietate trappole masochiste. E che quindi se il M5S mostra tutti i suoi limiti, ostaggio di se stesso, del giustizialismo che è nel suo Dna e nell’equivoco che porta a uno strano rifiuto delle forme (e non dei metodi, cosa ben diversa) delle politica, identificate a torto con il marcio, sta dando ragione ai suoi detrattori.
@barbadilloit