Bruce Lee (1940 – 1973) è una delle più importanti icone della cultura popolare contemporanea. Attore, marzialista e, come vedremo, anche provetto ballerino; la sua storia è saldamente legata al cinema, attraverso il quale egli ha fatto amare al mondo intero il kung fu. La sua influenza ci appare quasi immortale, tanto che da decenni la Settima Arte dedicata alle arti marziali sembra sempre replicare i movimenti, le tecniche e, persino, le smorfie di questo straordinario personaggio. Ciononostante, la sua figura è stata spesso e volentieri manipolata, miti e leggende su di lui si sprecano; luoghi comuni che andrebbero sfatati. Utile per riscrivere una storia attendibile su Lee è il libro di Christophe Champclaux: Il combattimento secondo Bruce Lee.
Informatissimo sulla vita di quello che è anche conosciuto come il Piccolo Drago, Champclaux offre nel suo testo una serie di informazioni preziose su Lee, e non lo fa con una serie di sterili dati, bensì per mezzo di una analisi del vissuto del grande attore e marzialista hongkonghese. Vengono messi, ad esempio, per la prima volta dettagliatamente a confronto il modo di combattere di Lee, con gli insegnamenti trasmessi nei suoi scritti. Il lettore troverà, nella prima parte, una disamina delle tecniche e tattiche marziali. Nella seconda parte del libro, l’autore svelerà il panorama completo dei programmi di addestramento che hanno consentito a Lee di divenire un punto di riferimento delle moderne arti marziali. Nella terza, infine, una biografia, arricchita da numerosi estratti dalle riflessioni personali che Lee era solito annotarsi, ripercorrendo la sfolgorante carriera di questo personaggio, riportando inoltre le testimonianze di amici e collaboratori. Difatti, nella sua pur breve vita (morirà a soli 33 anni), Lee ha disseminato il mondo marziale di allievi ed epigoni, cosa che ha certamente contribuito a perpetuarne il mito, ma, nel contempo, ha generato un mare di confusione intorno alla sua vicenda personale. Per tale cagione, il libro di cui stiamo parlando si attesta come un essenziale strumento bibliografico per chiunque voglia studiare in modo serio la vita e il pensiero di Lee.
Allora, chiariamo subito che Bruce Lee non era affatto il suo vero nome, e non si creda che lo fosse “Piccolo Drago”, che era, invece, soltanto un nomignolo, essendo egli nato nell’anno del “Drago di Metallo”. Nel Taoismo, differentemente dalla cultura occidentale, esistono cinque elementi: al fuoco, aria, acqua e terra, si affianca, per l’appunto, il metallo. La ricerca sul Tao, o Dao nella sua pronuncia cinese, sarà una costante nella esistenza di Lee. Dicevamo del suo nome, che è Lǐ Zhènfān (李振藩). Il giovane marzialista cresce in un collegio cattolico, e questo non è un dato di minore importanza, considerando che la vita di Lee sarà tutta all’insegna di un forte contrasto con la Tradizione orientale, segnatamente quella cinese.
Il cinema nel destino, così si potrebbe riassumere la parabola di Lee. Egli comincia a essere sui set da giovanissimo, comparendo nella pellicola cantonese, ma girata a San Francisco (sua città natale), Golden Gate Girl, quando ha solamente un anno. Nel 1953, inizia lo studio del Wing Chun. Non sarà però il celeberrimo Yip Man il suo maestro, come molti erroneamente ritengono, ma il primo istruttore di costui, quel Wong Shun Leung che passerà alla storia come uno dei più temibili streetfighter di Hong Kong; cosa che peraltro il Piccolo Drago non sarà mai, malgrado la sua fama di formidabile picchiatore. Invero, sappiamo che ci sono solamente cinque incontri accertati da lui combattuti. Altra leggenda, questa, che andrebbe sfatata e purtroppo alimentata da un film tanto ben riuscito, quanto inattendibile come quello di Rob Cohen: Dragon – La storia di Bruce Lee (1993). Champclaux, con un rigore quasi accademico, stronca, pagina dopo pagina, tutte le inesattezze che ruotano intorno al popolare personaggio cinese, cominciando sin dall’inizio del suo scritto con una dettagliatissima e ragionata “Cronologia della vita e dell’opera”; come quando lo studioso transalpino non fa mistero del fatto che Lee vada considerato prima di tutto un attore e poi un marzialista. Anzi, più che un eccellente praticante – aspetto che nel libro viene ripetutamente segnalato – egli fu forse il maggiore studioso del Wushu/Budo del XX secolo, lasciando circa mille pagine tra note e appunti! Giudichiamo questa ultima interpretazione del personaggio di Lee quanto mai felice e corretta, anche perché nella tradizione estremo orientale, il combattente era sempre anche un uomo colto, versato nelle Lettere e non quel bruto tutto muscoli e privo di raziocinio che imperversa nelle palestre occidentali. L’arte marziale, se non è sorretta da una mente pensante, serve per menare le mani, ma non sarà mai militare. Ovvero, profondamente utile al fine di uno scontro in cui è la vita a essere in gioco.
Il contrario dello stile, questa è, in sintesi, la essenza del modo di Lee di intendere il combattimento. Fino a quando ha potuto divulgare le sue teorie marziali, egli non ha fatto altro che dare voce a un potente richiamo contro la “cristallizzazione” del Wushu/Budo:
“Non credo che ci siano cose come ‘il modo cinese’ di combattere o ‘il modo giapponese’ di combattere, o qualunque altro ‘modo’ di combattere, poiché, a meno che un essere umano non sia dotato di tre braccia e di quattro gambe, non possono esserci modi diversi di combattere. […] gli stili tendono a separare gli uomini, poiché essi hanno le proprie dottrine e la dottrina diviene la Verità Evangelica che non si può cambiare!”
Va da sé, che la disciplina maggiormente oggetto delle sue critiche, e non poteva essere diversamente, essendo lui cinese, sarà il karate, arte marziale “cristallizzata” per eccellenza. Memorabile è, a tal proposito, il suo articolo apparso nella famosa rivista specializzata Black Belt nel settembre 1970, dal caustico titolo: Liberate Yourself from Classical Karate; l’unico scritto che uscì quando egli era ancora in vita, insieme al libricino Wing Chun Kung-Fu: Chinese Art of Self-Defense, pubblicato a sue spese nel 1964. Da notare come Lee scrivesse in inglese, il suo pubblico di riferimento non era, perciò, quello della sua Nazione, ma quello americano. Il suo essere un cinese assai atipico sarà altresì presente nella sua formazione marziale, visto che praticherà pure la boxe e la scherma occidentale. Il suo amore per il kung fu sarà negli anni della giovinezza abbastanza relegato in secondo piano, giacché Lee spenderà molte delle sue energie nell’apprendere il Cha cha cha, tanto da arrivare al livello agonistico, cosa che non accadrà per il combattimento.
Sia come sia, è la Settima Arte che lo consegna alla storia. Sulla sua carriera cinematografica si potrebbe parlare lungamente, e lasciamo quindi al lettore approfondire questo aspetto nel libro di Champclaux, dove si affrontano tutte le pellicole che hanno visto coinvolto l’attore. Non possiamo, comunque, non ricordare che con Dalla Cina con furore (精武门, “Jingwumen”, 1972), Lee diventerà un autentico eroe nazionale di Hong Kong; alquanto diversa sarà invece la sua sorte negli USA. Nel suo Paese di adozione, egli non sarà mai pienamente apprezzato, e gli sarà sempre e comunque preferito quell’ottimo interprete, e mediocre praticante, che fu David Carradine, per motivi che oggi sarebbero definiti “razziali”. Benché il buonismo imperante in questa epoca sia talora insopportabile e, ancor più spesso, ipocrita, nel caso del Piccolo Drago si è spinti a buon ragione a credere che vi furono effettivamente dei pregiudizi etnici che ostacolarono la sua carriera negli Stati Uniti. Non solo ciò è dimostrato dalle fonti citate da Champclaux, ma anche dalla logica. Lee era un attore immenso, almeno per quanto concerne il particolare genere filmico che lo riguardava, e un marzialista di qualità sopraffina. Dunque, una “miscela” vincente. Eppure, egli incassò molto di più con i suoi film “cinesi”, che nelle sue sporadiche presenze sui set statunitensi. Curioso constatare che la stessa sorte toccherà anni dopo a Jackie Chan, dal dubbio talento sia come attore che come marzialista. La “Maledizione Carradine” per Lee toccherà in più occasioni livelli umilianti, fino a essere da questi sostituito addirittura nella pellicola The Silent Flute (1979, da una storia elaborata dallo stesso Piccolo Drago), per la regia di Richard Moore.
Tornando al Lee maestro di arti marziali, non possiamo dimenticare i suoi tanti allievi, alcuni poi divenuti famosissimi sul ring, nonché davanti alla macchina da presa: Mike Stone, Chuck Norris e Joe Lewis. Tre nomi che molti addetti ai lavori conoscono perfettamente, essendo stati costoro i migliori combattenti del Nord America, tanto da fare, un po’ provocatoriamente, scrivere a Champclaux che si potrebbe parlare di un: “albo di successi per procura” nella vita di Lee come maestro.
Purtuttavia, l’animo del ricercatore consentirà fortunatamente a Lee di non soffrire della proverbiale sicumera caratteristica di quasi tutti i marzialisti di altissimo livello. Di conseguenza, egli in varie occasioni apprende dai suoi stessi discepoli. Il caso più eclatante è quello di Norris – temibile esperto del Tang Soo Do (당수 도) coreano e non di karate – grazie al quale impara a tirare quei spettacolari calci alti che lo renderanno famoso. Lee assimila, e non poco, pure dall’“odiato” karate, specialmente da eccellenti praticanti quali Ed Parker (Kenpō Karate) e lo stesso allievo Lewis (Shōrinryū Karate).
E il kung fu, più precisamente il Wing Chun? Non a caso abbiamo sottolineato che Lee era un individuo in contrasto con la sua cultura. Nessuno potrà mai negare la enorme importanza che ebbe il Wing Chun nella sua formazione marziale, come sostiene anche Champclaux: “[…] egli ha mantenuto del Wing Chun, la padronanza della linea centrale nelle tecniche di pugno, [questa] rimarrà fino alla fine, come mostra l’uso reiterato di raffiche di diretti che utilizzò in tutti i suoi film” (28). Ciò detto, lo scrittore francese non manca di far notare le palesi diversità tra Lee e Yip Man: “Ciò che differenzia l’uso della raffica diretta tra Yip Man (il personaggio del film) e Bruce Lee (il personaggio cinematografico) è il fatto che tale raffica significa in un caso la fine del combattimento che segna la vittoria dell’eroe, mentre nell’altro caso non è altro che una fase del duello, una tappa certamente spettacolare verso la vittoria, ma mai la vittoria in sé e per sé” (37).
In questo libro si fa tutto, fuorché alimentare il mito Bruce Lee, analizzando la sua vita in modo scrupoloso, arrivando anche a stigmatizzare la eccessiva praticità della sua concezione marziale: “[…] si comprende che per Bruce Lee nel combattimento totale l’ossessione dell’efficacia aveva la meglio su ogni altra considerazione estetica o morale” (35).
In conclusione, Champclaux riassume così l’essenza del pensiero del Lee praticante e studioso di Wushu: “È buono ciò che funziona per te”. Pochissime parole capaci nondimeno di sintetizzare completamente quel mondo intellettuale e fisico che fu il Piccolo Drago. Il combattimento secondo Bruce Lee è un libro in cui le arti marziali sono considerate una materia di studio, rivelandosi un ottimo manuale “tecnico”, dove il combattimento viene spiegato con le parole e non, come avviene per la maggior parte dei testi simili, con delle semplici fotografie. Sia chiaro, non che manchino le immagini, tutt’altro, ce ne sono di molte (in B/N e a colori), ma queste finalmente raccontano, sono contestualizzate all’interno di un ragionamento sulle arti marziali. Già, ragionare, oggi sembra quasi una eresia in un ambiente, come quello marziale, fatto sostanzialmente di “pitbull” che di letale hanno perlopiù l’aspetto. Se a questi tristi individui si toglie la prestanza fisica, allora diventano facili prede, poiché nella testa hanno poco o nulla. Tale è, crediamo, la grande lezione che va conservata con premura di Lǐ Zhènfān: le arti marziali, ancor prima di essere praticate, vanno studiate.
*Il combattimento secondo Bruce Lee di Christophe Champclaux (Roma, Edizioni Mediterranee, 2014)