Ardono, tra fiori ardenti, le preghiere. Il sud del sud dei santi, nella villeggiatura dei ritorni, si completa oggi: solenne festività della Madonna del Carmine. Il Suo scapolare – è la stoffa sul petto dell’abito sacro – ondeggia tra le dita dell’amatissima statua alzata, dal monte Carmelo, sopra le teste dei paesani e raduna una processione sempre in ritardo rispetto ai propri passi.
Il miracolo, infatti – l’appello alla Madre, vergine e santissima – è già compiuto ancora prima della supplica. Dal 16 luglio, quando ogni rito è già consumato – così nella data ufficiale stampata sul calendario cristiano – ci si sposta di un mese esatto. Per volontà di popolo, in soccorso alle genti, perché s’è stati tutti a lavorare, in campagna.
In ritardo rispetto all’estate ormai finita, solo adesso, si può fare ritorno al paese. Il taglio della luce è già cambiato, il vento è ricco di suoni e – lungo le strade imbiancate dalla polvere e non certo dalla neve – sorge il presagio d’inverno.
Nel mezzo d’agosto si celebra la fine di stagione. Nel sud del sud dei santi s’invera il sentimento d’attesa verso la Regina. Ogni paesano assolve al mistero d’intimità verso la Madre dalla cui corona discende il velame.
Il hijab contorna il volto, avvolge le braccia, i fianchi, ne slancia i passi e così conferma, nella rappresentazione – preesistente sia al cristianesimo, sia alla Rivelazione – l’antico culto della Grande Madre. I venditori ambulanti, tutti immigrati magrebini, venuti per la fiera patronale – come a Leonforte, oggi – osservano divertiti i cittadini rendere omaggio a quegli stessi veli che i comizianti in tivù vogliono esorcizzare se non proibire.
In processione, tra i carabinieri, c’è perfino il sindaco con la fascia tricolore collocata in diagonale ma nel vibrare dello scapolare, cui rivolge l’inchino Simone Stock (il presbitero inglese che nel 1251, il 16 luglio, ebbe l’apparizione di Maria), chador e mantelle elevano la celeste missione che questa parte di mondo, il Mediterraneo, conosce per tramite di un’unica avvocata dai tantissimi nomi.
Sia essa Iside, Demetra, Maria, Miriam, Fatima o Nostra Signora de’ Turchi (per come ebbe a evocarla Carmelo Bene, non a caso “Carmelo”), oppure Agata, Rosalia e Lucia – le vergini di Sicilia – e così la Venere di Morgantina, tornata al suo mare di solo grano, nella valle di Kore, con la statua oggi restituita dal Getty Museum di Malibu al Museo di Aidone, a Enna.
Un’impronta feconda nella carne eterna della Grazia. E’ la promessa sempre visibile nelle donne chiamate all’appello della bellezza in questa parte di mondo dove i volti delle dame dipinte da Antonello da Messina si specchiano – giusto a trovare un completamento – sulle dita della Venere Callipigia, la statua rinvenuta a Marsala nel 2005, in mostra a MaterGea a Brolo e poi ad Agrigento, dita da cui promana il carisma dell’elegante concerto di amore ed estasi.
Sabato scorso, alle cinque del mattino – nel Teatro dei Due Mari, sotto il cielo di Tindari – Vittorio Sgarbi ha tenuto lezione ardente di pudore e di sacrissima luce. Un’esperienza di raro rapimento, preparatoria alla preghiera dedicata alle madri. Il sud del sud dei santi, nella villeggiatura dei ritorni, nel mezzo d’agosto che s’avvia alla fine dell’estate torna alla vergine. Non a caso, “Carmelo”. (dal Fatto)