Il romanzo a sfondo tedesco-americano di Adélaïde de Clermont-Tonnerre uscirà mercoledì 17 agosto
Più della Germania, è la Francia ad avere un passato che non passa. Il suo ‘900 schiera il Maresciallo Philippe Pétain, nel ruolo dello “scudo”; il generale Charles de Gaulle, nel ruolo della “spada”; François Mitterrand, vicino a Pétain prima, erede di Charles de Gaulle dopo. Tutti variamente coinvolti nel crollo del giugno 1940. Il 18 di quel mese Charles de Gaulle dice da Radio Londra: “La Francia ha perduto una battaglia, non la guerra”. E nega legalità all’Etat français, che pure sta nascendo dal Parlamento al quale lui stesso, come fresco sottosegretario alla Guerra, rispondeva fino al giorno prima. Non solo: proclama unico legittimo il suo governo in esilio a Londra, nato senza avere un territorio (il primo sarà il Congo Brazzaville). Perduto l’Impero coloniale (mezza Africa, Indocina…), deposto Charles de Gaulle dal referendum del 1969, l’erosione del mito gollista è inevitabile. Ma quel mito è stato fondamentale perché la Francia si svincolasse dall’egemonia statunitense, restando sì nell’Alleanza atlantica militarmente, ma uscendone politicamente.
E’ proprio uno storico statunitense, Robert Paxton, a raccontare nel 1973 ai francesi quello che, peraltro, sapevano benissimo, ma avevano rimosso: il vasto consenso per Pétain (e per la sua legislazione razziale); l’esiguità della Resistenza, almeno fino allo sbarco in Normandia. Da allora sono usciti centinaia di libri di francesi per ribadire che i compagnons de la Libération erano meno dei collabos dell’occupante germanico. E soprattutto che la grande maggioranza dei francesi si infischiava degli uni e degli altri. Da questa “colpa” è derivata l’ennesima contesa franco-francese su chi è patriota e chi non lo è.. Per accorgersene, basta guardare le librerie di Parigi: negli ultimi quarant’anni interi scaffali sono passati da temi generici (“Storia della seconda guerra mondiale”, “Storia contemporanea”, “Storia della Francia”…) a temi specifici: razzismo, antigiudaismo, shoah. Dove è la memoria, più che la storia, a fare testo.
La Francia soffre anche di un altro complesso derivato dalle due guerre mondiali: quello della Germania. La Francia ha l’arma nucleare, ma la Germania ha l’arma economica e si serve della Francia come di un mercenario. In cambio le risparmia, per ora, lo strangolamento che riserva all’Italia… Quindi “il grande-romanzo-francese” (qualifica ambitissima alla quale concorrono cinque libri al mese) cela regolarmente il romanzo-saggio ideologico/psiconalitico, con figli (Dominique Fernandez, Patrick Modiano…) dediti a vergognarsi dei padri e un nipote (Alexandre Jardin) che si vergogna del nonno. Come lavorare in un ambiente letterario tormentato da rimorsi collettivi senza allinearsi o emarginarsi?
Ci prova Adélaïde de Clermont-Tonnerre ne Le derniers des no^tres (Editions Grasset, pp. 496, euro 22, in libreria in Francia da mercoledì 17 agosto), rappresentando angosce retroattive francesi ma ambientandole negli Stati Uniti anni ’70. “L’ultimo dei nostri” è infatti un bimbo nato a Dresda e portato nel 1945 negli Usa, qui adottato da madre normanna e adattato al sogno americano: “Vince chi muore più ricco”. Questioni di origini, colpe irredimibili, nemesi implacabili. Nella società del benessere, che ha ereditato dal presidente Kennedy la guerra francese in Indocina, affiorano i baby-boomers, i numerosissimi figli del dopoguerra. Sono più liberi dei genitori, ma non sono immuni dalle ombre del passato.
Signora, il nocciolo de Le dernier des nôtres è…
“… Un amore proibito nell’epoca permessiva”.
Protagonista?
“Werner Zilch. Nasce a Dresda sotto il bombardamento del 1945. Orfano, è l’ultimo di una famiglia influente che ha perduto tutto. Venticinque anni dopo lo ritroviamo a New York. Adottato da bambino da una coppia della classe media americana, è un rampante in cerca di affermazione. Ignora il suo passato e i genitori biologici. Il suo folle amore per Rebecca, giovane artista, figlia di uno degli uomini più potenti degli Stati Uniti, lo costringerà a riaprire la pagina dolorosa delle sue origini”.
In fondo, quale scopo si è prefissa scrivendo questo libro?
“Evadere, portando il lettore con me. Talora la quotidianità mi soffoca. Mi serve vibrare in una realtà parallela. Scrivere è libertà assoluta. Nessuno ti dice che cosa fare, né dove andare”.
E’ un romanzo storico?
“Mi baso su una trama storica: Manhattan in piena effervescenza, ai tempi di Bob Dylan, Patti Smith, Andy Warhol e della Factory… Avendo in contrappunto la fine della seconda guerra mondiale in Europa e l’operazione segreta Paperclip, che permise al professor Von Braun, inventore dei missili tedeschi V2, di sfuggire ai processi politici del dopoguerra e di esser accolto sul suolo americano con 117 membri del suo gruppo. In pochi anni egli prenderà la direzione di quella che diverrà la Nasa e manderà gli americani sulla Luna”.
Che rapporto c’è tra Von Braun e Andy Warhol, tra Dresda e Manhattan?
“Queste epoche sono legate al di là della trama del romanzo. Con questo libro ho tentato di capire da dove venga la profonda malinconia attuale. Certo, attraversiamo una grave crisi, ma essa non è paragonabile a ciò che hanno conosciuto i nostri genitori o nonni. Loro hanno vissuto l’inumano, l’indicibile, eppure i primi tre decenni del dopoguerra c’erano gioia di vivere e sfrenata creatività… Ho capito che il mese di ferie pagate era una fuga in avanti. Con un passato atroce come la seconda guerra mondiale, si doveva credere nel presente e nell’avvenire. Oggi è l’inverso”.
Lei ama la finzione…
“… E diffido dell’improvvisa passione del reale impadronitasi di letteratura, cinema, arte in genere. Che sia romanzesca o amorosa, la menzogna mi seduce infinitamente di più. Spesso è più ‘vera’. Il bisogno di attingere all’esistente talora mi pare una confessione d’impotenza. Certi autori ne fanno libri meravigliosi, ma io sarò sempre più attratta dall’invenzione, da chi crea mondi dove rifugiarci quando il nostro è insopportabile”.
Lei esplora la disturbante questione del doppio…
“La tragedia sottesa a questa storia nasce effettivamente da una relazione tossica tra due fratelli nemici, sposati ad amiche inseparabili. Il loro odio si ripercuote su due continenti, due generazioni e vari decenni. Il tema del doppio percorre tutto il romanzo, specie nella profonda amicizia che lega Werner a Marcus. Il mio eroe non regge la solitudine. Nonostante l’ ambizione, la determinazione nel riuscire, è tutto tranne che individualista”.
E’ anche la storia di una passione…
“…Irreprimibile. L’attrazione tra Werner e Rebecca è immediata, potente, carnale. Werner vuole regnare, Rebecca liberarsi dal suo ambiente. Lei è per lui la donna dell’ascesa; lui è per lei l’uomo dell’emancipazione. Nulla pare opporsi a loro. Una rivelazione tronca questo slancio. Un divieto troppo forte perché loro possano amarsi ancora…”
Gran parte de Le dernier des nôtres si svolge negli anni ‘70. L’attirano molto?
“Un po’. Innanzitutto perché sono la gioventù dei miei genitori. Tutti, credo, vorremmo genitori giovani. Poi perché sono un decennio affascinante. I soldi, allora, erano molto, ma non tutto. Quindi è un periodo d’intensa creatività musicale, artistica, letteraria, ma anche d’intensa libertà: si guida veloce, si fuma di tutto, si beve molto e si va a letto con chi si vuole, senza inquietudine e retro-pensieri. C’è uno slancio formidabile. Un sogno folle di cambiare il mondo”.
Molto degli anni ’70 resta attuale.
“Soprattutto l’essenziale delle tematiche degli anni ‘70 è divenuto ciò che oggi preoccupa. Nel bene: salvare il pianeta, realizzare un’economia partecipativa, solidale, puntare alla decrescita, slow food, tendenza nata in Italia. E nel male: ideologie estremiste, terrorismo, indipendentismi, ecc…. Ma negli anni ‘70 tali idee nascevano dalla prosperità; oggi rinascono dalla crisi. Siamo il negativo dei ‘70”.