Tra le macerie fumanti di Milano assediata dai bombardamenti angloamericani è venuto alla luce uno dei capolavori della musica del Novecento. Mentre nel ’42 piovevano le bombe, nei rifugi, uno dei più grandi musicisti del secolo passato scriveva la sua (unica) Sinfonia. Gino Marinuzzi è stato un grande direttore d’orchestra, anzi eccelso. Ma grandissimo è stato anche quale compositore e il fatto che ci abbia lasciato (tra la sua produzione) una sola sinfonia ce lo rende ancora più prezioso.
Negletta per troppi anni, la Sinfonia in La di Gino Marinuzzi è tornata in scena – poche settimane fa – al Teatro Bellini di Catania. L’orchestra, diretta dal Maestro (milanese, guarda caso) Giuseppe Grazioli, ha eseguito la sinfonia nell’ambito di uno splendido concerto che ha compreso anche musiche di Giuseppe Verdi e di Nino Rota. C’è un sentire che chiama al riascoltare intimo, e ogni volta trovare nuovi dettagli, nuove trame, intrecci preziosi e rapidi, che si uniscono e disfano veloci, ora consolatori e adesso folgoranti che unica direzione sembrano avere, quella del coraggio umano e virile nel solco della pietas ispiratrice e guida dell’uomo, con tutto quanto impone un concetto così classico da essere eterno e immutabile.
Technè e Aretè.
Incardinata su una struttura estremamente all’avanguardia lontanissima dal “neoclassico” in cui da alcuni s’è voluta intrupparla, è opera di difficile analisi e difficilissima partitura che si scioglie, all’ascolto, in semplicità tanto disarmante quanto immensa. Il richiamo al retaggio inestimabile della classicità sembra tributario direttamente di Virgilio tanto che, se il primo movimento s’intitola “Apertura”, il secondo è “Georgica” e il terzo è “Ditirambo”. È un segno importantissimo che non si deve sottovalutare specie perché è sotteso a una struttura formale e stilistica rigorosissima.
Suggerisce, ciò, un’altra considerazione rende ancor maggior merito alla sinfonia: Marinuzzi mette la tecnica (in questo caso quella musicale, che padroneggia da suo pari, figlio devoto e riamato da Euterpe) al servizio delle virtù dell’Uomo, Technè quale fortissima ancella a tessere le lodi di Aretè e non lasciata sola a esplodere quale forza cieca e distruttrice, quasi emanazione postmoderna dell’incontrollabile dea Kalì indiana. E di questi tempi tale racconto ha valenza rivoluzionaria.
Merito indiscusso va al Maestro Giuseppe Grazioli che, oltre ad aver diretto in maniera impeccabile l’eccellente esecuzione della Sinfonia da parte dell’Orchestra del Bellini (quanto appassionato e durissimo lavoro trasuda dalle magnifiche, asciutte e sferzanti raffiche musicali rese ancor più grandi dall’acustica impareggiabile del teatro catanese!), dimostra di possedere doti non comuni di sensibilità artistica, musicale e di avere il coraggio di seguire fino in fondo la vasta profondità delle sue stesse intuizioni che lo hanno mosso alla riscoperta di Marinuzzi. C’è da togliersi il cappello, davanti all’orchestra di Catania e al Maestro Grazioli. E, chiaramente, al Maestro Marinuzzi.
Una vita.
Marinuzzi, appunto, la cui vita non fu affatto facile. Il ritratto di questo grandissimo italiano lo si deve sottratto all’oblio dall’acume e dalla sensibilità di Paolo Isotta, che non solo conferma la sua statura di insigne musicologo, letterato e intellettuale ma anche quella di eccellentissimo interprete dell’animo umano. E che per tratteggiarlo ancora al meglio sceglie in Altri Canti di Marte di svelarlo al pubblico attraverso un accurato e profondo viaggio nello sterminato epistolario del maestro siciliano.
Gino Marinuzzi fu palermitano, idealista e appassionato e non raccolse commisuratamente alla sua levatura perché tanto idealista e appassionato, appunto, da badare poco alle cose misere del mondo. Fu però uomo di virtù praticate, non solo annunciate come è vezzo dei lazzaroni. Ebbe la sventura di perdere un figlio, per una polmonite. Ne rimase scosso e la sua musica divenne ancora più sublime. Eppure lui avrebbe preferito, da uomo ferito e sempre devotissimo alle Muse, trasformarsi in un cane di direttore pur di riaverlo indietro. Scelse – a sessant’anni (era nato nel 1882) e sotto i copiosi temporali di bombe che si abbatterono sulla quella che intanto era diventata la Repubblica Sociale Italiana, di onorare le sue responsabilità verso la musica assumendo su di sè il compito di tener in vita il Teatro de La Scala di Milano di cui era stato prima direttore artistico e poi soprintendente. Come ha ricordato proprio Isotta in un recentissimo articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano, diresse per l’ultima volta il 24 aprile del ’45, il giorno immediatamente precedente a quello della “liberazione”. In scena, il “Don Giovanni” di Mozart. Morì solo due mesi dopo l’ultima volta sul podio, ucciso da un virus resogli letale dal tremendo lascito della guerra che debilitava il corpo (ma non l’anima!) di tutti coloro che ebbero in sorte di vivere la tragedia del conflitto mondiale.
Pietas come dovere in un mondo impazzito.
Forse per questo, Marinuzzi, sembrava essere stato condannato dal limbo della dimenticanza. Forse per opportunità politica, perché da uomo pervaso dal senso del dovere nei confronti della musica e della società (e che di certo non si può annoverare tra i beneficati del regime, tutt’altro!) scelse di non tirarsi indietro, di non ripiegare né per opportunità né per paura e lo fece, sicuramente, per non lasciare che proprio la paura, la disfatta imminente e la miseria umana e materiale della guerra prendesse il sopravvento. Ecco che torna il coraggio, virile e umano, praticato per dovere e che mai scade nello sciacallaggio della convenienza o nell’incoscienza figlia decadente del gusto all’autodistruzione.
Perciò Marinuzzi è un esempio, oggi più che mai valido e fulgido, in tempi bui e tristi come questi in cui ogni pilo addiventa trave, ogni caso diventa fonte di terrore, in cui ci si perde troppo facilmente tra gli spasmi dell’ansia e della paura, accucciandosi pavidi al gelido cospetto di Fobos e Deimos. La Sinfonia, catalogo musicale delle virtù dell’uomo, seppe nascere mentre le bombe radevano al suolo Milano. E Isotta che la innalza giustamente a opera virgiliana ci indica la strada per meglio comprendere questo capolavoro da riscoprire: un inno, profondo e sincero, alla pietas come dovere in un mondo sconvolto, impaurito e perciò impazzito.