“Il migliore dei quattro Savoia regnanti” lo definì una volta lo storico inglese Denis Mack Smith sempre un po’ acido nei confronti dei sovrani (e degli altri cinquanta milioni e passa di sudditi) italiani. Umberto II di Savoia non fu Re per pochi giorni, come sembrerebbe indicare l’elegiaco titolo di “Re di Maggio”, ma sostanzialmente fu Capo di Stato per due delicatissimi anni. Ora un equilibrato saggio di Gianni Oliva racconta “Gli ultimi giorni della Monarchia” (“Gli ultimi giorni della Monarchia. Giugno 1946: quando l’Italia si scoprì repubblicana”, edizioni Mondadori).
La vittoria della Repubblica nel referendum non fu travolgente: una sostanziale parità. Mancavano all’appello i voti del Trentino e di Trieste, tagliati fuori dalla giurisdizione dello Stato italiano nel momento in cui il popolo fu convocato alle urne. Si dice che il voto femminile premiò colui che era stato per anni il beneamato “Principe Umberto”. Si dice anche che la repubblica “nacque dalla resistenza”, ma questo non è vero: fu più realisticamente il voto dei fascisti che avevano seguito Mussolini nella proclamazione della prima Repubblica (Sociale) Italiana a far pesare il loro consenso mandando in esilio i Savoia.
Umberto attraversò questi eventi con aristocratica distinzione. Durante gli anni del consenso al fascismo ebbe una educazione politica improntata a una forma di corporativismo cattolico, ma non dimenticò gli originari principi liberali che si legavano allo Statuto Albertino. Come suo padre fu contrario all’alleanza con Hitler, ma in quanto generale dell’Esercito Italiano prese parte alla breve e infelice offensiva sul fronte francese. Negli anni del dopoguerra sostenne di possedere le prove di una sorta di accordo tra Italia e Francia per fare in modo che la presenza italiana bilanciasse i rigori della occupazione tedesca su suolo francese. Nel giorno drammatico dell’8 settembre si oppose alla fuga da Roma della corte e del governo e Badoglio dovette minacciarlo rammentandogli i rigori della disciplina militare per indurlo a seguire i vertici lungo la strada di Brindisi.
Nei mesi del “Regno del Sud” partecipò con coraggio, addirittura con temerarietà, alle azioni militari che seguirono al rovesciamento di fronte. Forse se Vittorio Emanuele avesse passato la mano del Regno non a maggio del ’45 ma a ottobre del ’43 le sorti del referendum potevano essere diverse.
Umberto volle evitare i disordini che la sua permanenza in Italia come simbolo dell’istituto monarchico e partì per l’esilio. Ormai la repubblica era un dato di fatto, al di là di tutte le contestazioni: anche perché una repubblica può reggersi con un 50% di consensi, una monarchia ha bisogno di un consenso più vasto per avere un senso.
Dall’esilio portoghese, esemplare per sobrietà e dignità, Umberto espresse un sostanziale consenso alla politica dei governi centristi (con appoggio a destra) degli anni del miracolo economico.
Negli anni tempestosi del concilio spese la sua firma per evitare che il mondo tradizionalista cattolico entrasse nel vicolo cieco settario del lefevbrismo. Alla fine degli anni Sessanta disse parole forti contro la creazione del carrozzone delle Regioni. Parole che oggi appaiono lungimiranti.
Morì in esilio, come tanti italiani all’estero più centrati nella loro identità italiana di tanti altri che rispolverano il tricolore solo per una partita di calcio.