Edmund Burke, nelle sue Reflections on the French Revolution[1], scriveva che uno Stato può avere valore e godere di equilibrio solo se conserva in sé tracce tangibili del proprio passato nelle istituzioni e nel proprio ordinamento. Se questo pensiero davanti alla modernità ci rincuora, soffermandoci sulle vicende degli ultii decenni, non possiamo mancare di accorgerci di quanta confusione e smarrimento, tanto a livello di élite culturali quanto di percezione collettiva, siano generati dal sempre più attuale dibattito sul ruolo e valore della storia e dalla storia stessa. Di questa confusione è stato esempio lampante la cosiddetta Historikerstreit[2], la controversia degli storici.
Si trattò di una polemica scoppiata nel 1986 dalle pagine di alcuni autorevoli quotidiani tedeschi e che vide contrapporsi, tra gli altri, il filosofo erede della Frankfurter Schule Jürgen Habermas e gli storici Hans e Wolfgang Mommsen, alla scuola revisionista che si raccoglieva attorno allo storico dei fascismi Ernst Nolte. Prescindendo dalla peculiarità di un contesto delicato come quello tedesco, in cui si sviluppò e crebbe la polemica, sembra che in quest’ultima affiorino con evidenza due opposte concezioni della storia e del divenire storico. Una, quella sostenuta da Habermas, appare come volta a preservare da derive revisioniste, più o meno politicizzate, la narrazione storica, intesa come patrimonio stabile, fonte di certezze, basamento sul quale si fonda la società contemporanea. Dall’altra parte ci imbattiamo in un’idea di storia, quella sostenuta da Nolte, da Stürmer, da Hillgruber, intesa come continua revisione, continuo misurarsi col passato aprendosi a nuove possibilità interpretative.
Si tratta in entrambi i casi di possibilità assolutamente legittime; eppure, ciascuna, se considerata separatamente, se presa in esame per sé stessa, si rivela incompleta, sterile all’interno di un confronto di portata universale. Esse appaiono sintomatiche di un’umanità lacerata, sempre più tendente al relativismo etico da una parte e, dall’altra, impegnata nella vana ricerca di basi solide sulle quali ricostruire o fondare il proprio vissuto. Tenteremo ora di analizzare entrambe le posizioni.
La revisione storica in senso critico è, senza dubbio, necessaria: non può esistere un’adeguata narrazione storica se non aggiornata e sviluppata alla luce della modernità, né possiamo più basarci su una visione dei fatti improntata alle necessità ideologiche del momento in cui fu elaborata. È però altrettanto vero che quello della revisione è un discorso che può risultare rischioso e passibile di dolorosi equivoci. Di fatti, nel peggiore dei casi, la tendenza del revisionismo può essere quella di relativizzare la storia. Ciò significa sminuire, più o meno volutamente, la portata di eventi storici, privandoli del messaggio, anche morale, di cui si fanno portatori. Inoltre, il mutamento di giudizio critico in merito ad un fatto storico non dovrebbe essere inficiato da finalità politiche, e, se mutamento dev’esserci, che esso sia equilibrato, che non riabiliti ciò che riabilitabile non è generando spaesamento e confusione.
Eppure non è solo il revisionismo storico ad essere figlio di un’umanità relativista in cui molti hanno l’impressione di vivere senza un retroterra spirituale e come eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia, come scriveva Papa San Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa. Anche la volontà di “bloccare”, di istituzionalizzare la storia si inserisce a pieno titolo nella crisi valoriale di cui è vittima l’uomo contemporaneo. Quest’ultimo, tronfio dei propri successi e conscio di vivere in una società che ha l’ambizione di essere la migliore tra quelle possibili, è approdato, diagnosticava nel 1992 il politologo statunitense Francis Fukuyama in un’opera dall’emblematico titolo di The End of History, ad una visione immanentistica della storia. Essa presuppone che, salvo qualche progressivo e lieve mutamento, lo status quo attuale debba divenire eterno e che nulla più si abbia da apprendere a livello di coscienza storica. Dunque l’uomo di oggi, questo hollow man, come ebbe a scrivere T.S. Eliot, non si guarda più alle spalle, non si rivolge più alla storia come magistra vitae e, soprattutto, appiattendo la dimensione storica della propria coscienza, sta finendo per perdere ogni reale percezione del proprio essere e delle proprie radici. In questa prospettiva i fatti storici, anche più recenti, appaiono distanti, quasi impalpabili, avvolti da una nube soffusa o, tuttalpiù, come tappe di un processo evolutivo conclusosi nel migliore dei modi con la società presente. È questa una visione statica della storia, fissata secondo parametri di giudizio fissi, invece che mutabili come richiederebbe lo svolgersi dei tempi. Nel momento in cui la storia diviene istituzione, essa viene svuotata di qualsiasi arcano e di qualsiasi messaggio, e diviene una presenza asfittica invece che viva e pulsante, una presenza che non rivela più nulla. Ciò, ad esempio, appare evidente nel caso dell’Olocausto del popolo ebraico, del quale si celebra ormai da anni il Giorno della Memoria senza che venga avviato un discorso realmente profondo sull’argomento e, soprattutto, riducendolo ad una pura questione di forma che certo non può abbracciare la dimensione, non solo umana, di un evento tanto spaventoso.
Dunque, purtroppo, ergersi a custodi del passato significa spesso rendersi custodi di una certa visione del passato, svuotando quest’ultimo di un significato che trascende la contingenza. Tuttavia, l’uomo, in questi temi di smarrimento più che mai, necessita di una coscienza storica valida e di chi sia capace di permettergli d’acquisirla. Ne va della sua esistenza come essere umano dotato di pensiero consapevole, ed il rischio è che la drammatica prognosi formulata nel XIX secolo da un grande storico liberale, Alexis de Tocquevile, un vaincu qui accepte sa défaite, come lo definì Guizot, si avveri: …temo che [la società moderna] finirà bloccata e ingabbiata; che la mente oscillerà avanti e indietro senza idee nuove; […] che l’umanità, pur essendo sempre in movimento, cesserà di avanzare[3].
Quale potrebbe essere la soluzione, quale il salvifico appiglio? Forse proprio affidarsi alla storia, non più intesa come istituzione o come perenne revisione, bensì come linfa sempre viva e fresca che vivifichi le nostre radici terrene. Questo potrà avvenire solo se entrambi i volti che caratterizzano la storiografia moderna si combineranno in equilibrio, liberandosi da ogni velleità ideologica. Parafrasando Nicolás Gómez Dávila: solo sul tempio purificato della storia e della tradizione gli uomini potranno ricostruire la cattedrale del loro spirito.
[1] Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione Francese, prefazione di Domenico Fisichella, Ciarrapico Editore, Roma, 1984.
[2] La più completa bibliografia in lingua italiana sull’argomento, è contenuta in Germania. Un passato che non passa, a cura di Gian Enrico Rusconi, Einaudi Editore, Milano, 1987; si vedano anche Christian von Krockow: Il dramma di una nazione. Germania 1890-1990, introduzione di Maurizio Serra, Il Mulino Editore, Bologna, 1994, e Hans-Ulrich Wehler: Le mani sulla storia. Germania: riscrivere il passato?, Ponte alle Grazie, Firenze, 1989.
[3] In Carl Schmitt, Ex captivitate salus, Adelphi, Milano, 1982.