Chiunque si sia preso la briga di andare ad analizzare i risultati nazionali di Fratelli d’Italia alle amministrative, avrà senz’altro chiaro ciò che perlopiù è passato in sordina: quello che si candida a rappresentare la destra in Italia soffre di una sostanziale stagnazione dei consensi.
Malgrado i sondaggi come sempre inaffidabili facessero sperare in un 5%, il partito di Giorgia Meloni si è piantato un’altra volta sotto la sua insuperabile soglia del 4%.
Al di là di Roma, dove la figura di Giorgia candidata ha permesso al partito di raggiungere il 12,27% (comunque mediocre), nel resto del Paese FdI registra risultati veramente sconfortanti. Provando ad analizzare i 17 capoluoghi di provincia che sono andati al voto, otteniamo infatti una media percentuale pari al 3,87%: in questo dato spicca il 2,42% di Milano, da dove pure provengono alcuni importanti dirigenti del partito, l’1,46% di Torino e l’1,28% di Napoli, dove FdI esprimeva addirittura un candidato sindaco.
Se poi facciamo l’esercizio di escludere Roma dal calcolo della media percentuale dei voti dei capoluoghi di provincia, otteniamo un misero 3,41%.
Dunque, al netto di crisi economica, della crisi dei migranti, dell’ondata antieuropea, del lepenismo in crescita continentale, delle qualità indiscusse di Giorgia Meloni e dell’assenza di avversari credibili in tutto il centrodestra, il partito rimane piantato al palo, tanto da far pensare che in condizioni normali potrebbe persino ridurre il proprio elettorato.
Si tratta di una vera e propria débacle, o come diremmo a Roma, una sonora scanizza.
La prima tentazione a cui è necessario resistere è quella di sottovalutare questo fallimento: si tratta di una battuta d’arresto grave, che tra l’altro porta il partito fuori dalla maggior parte delle amministrazioni pubbliche.Ma proviamo a parlare delle cause.
Puntare al basso… ventre
La prima è senza dubbio l’assenza totale di una struttura di partito credibile: l’intero partito, infatti, ha potuto finora contare soltanto sulle capacità personali di Giorgia Meloni, sul credito di cui gode come persona onesta e capace, sulla sua capacità di distrarre consensi dai cinque stelle e dalle altre destre, e sulla sua originalità. Purtroppo questo vantaggio è stato perlopiù annientato dall’inconsistenza di un partito poco credibile, per nulla affidabile e soprattutto autoghettizzato in una marginalità politica che non fa onore alla storia di cui è erede.Fin dalla sua fondazione carica di aspettative, e soprattutto dall’operazione che ha permesso di appropriarsi del nome “Alleanza Nazionale”, FDI si è candidata a ricostruire il mondo dell’area tradizionale, sociale, nazionale, popolare, ma anche liberale e cattolica, che proprio in AN ha avuto il suo ultimo contenitore autorevole, prima che Fini perdesse il lume della ragione e azionasse la sua cintura esplosiva al centro dell’agone politico.
Mai aspettativa fu più grandemente delusa: invece che proporsi come realtà politica seria, costruttiva e autorevole, FDI si è immediatamente andata a scavare una nicchia di consenso caldo e sicuro, fatto di quella particolare categoria di popolo che non manca mai, soprattutto in periodo di crisi: gli ignoranti scontenti, gli animi semplici e arrabbiati.
È una colpa grave, anzi un vero e proprio tradimento della propria missione: finché si è all’opposizione inseguire il facile consenso della massa imbufalita è fin troppo semplice, soprattutto se quando si governava non si è data una gran prova.
Ma soprattutto è un’operazione politicamente disonesta: così facendo si rinuncia al ruolo di guida che è proprio delle élite politiche (soprattutto a destra), assecondando il moto ondoso e inconsapevole della massa, invece di indirizzarla verso una direzione come essa stessa bramerebbe.
Perché è semplicemente ingenuo – o segno di cattiva fede – trasformare in messaggio politico la legittima rabbia di una pletora crescente di scontenti. E quel che è peggio: è un’operazione che non porta voti, soprattutto quando quello spazio è già occupato dall’ingombrante presenza di un partito che sull’ignoranza urlante ha costruito un impero.
La destra nazionale (per quanto io abbia in odio il termine “destra”) che si fa populismo è una vergogna storica e politica, che non rende onore – anzi, che disonora – i tanti intellettuali che hanno contribuito a costruirla come realtà complessa e autorevole.
A costoro si contrappone oggi una pletora di “organizzatori”, più o meno bravi nella loro capacità di gestire il consenso (poco, a come si vede), ma comunque ideologicamente contrari a qualsiasi forma di elaborazione, allergici alla complessità, restii alla discussione vista come borghese orpello contrapposto all’azione, eletta a divinità fine a se stessa dagli slogan che esaltano “la magia del fare”. Una magia vuota, se al verbo fare non segue un complemento oggetto che funga da aggettivo qualitativo. Fare il bene del Paese o, come avremmo detto quando ci credevamo tutti, fare la rivoluzione. Rivoluzione che invece stanno facendo proprio i 5 stelle, fondandola su un sistema di valori perlopiù antitetico al nostro e condannandoci all’umiliante posizione di “reazione”.
Si spiegano così, in FDI, i richiami ossessivi all’orgoglio populista e al lepenismo, l’uso di un linguaggio ricercatamente triviale, la semplificazione offensiva dei problemi più complessi, e la loro riduzione in slogan da curva.
Perché se è vero che la politica è anche di linguaggio, le scelte comunicative di FDI fanno letteralmente cadere le braccia.
La campagna elettorale romana è stata aperta da un volantino sul quale figurava la foto di Giorgia accompagnata da una matita rosso-blu, al fianco della quale stavano segnate in rosso le cose contro cui FDI intendeva lottare, e in blu le cose da difendere.Ebbene gli ideatori della campagna, nel riassumere i punti salienti della propria iniziativa politica non trovavano di meglio che scegliere “cittadini, imprenditori, italiani” dalla parte dei buoni e “rapinatori, banche, immigrati” nella zona rossa. Ora, posto che di tanti problemi che Roma ha credo che quello dei rapinatori non sia esattamente il principale, e posto che mi va bene la provocazione semplicistica del mettere le banche nel gruppo dei cattivi, ciò che proprio non mi spiego è come si faccia, nel 2016, a inserire la parola “immigrati” tra le cose da combattere. Per esigenze di corsa al ribasso verso il becero, la lotta contro la clandestinità, contro i trafficanti di uomini, contro il meticciato culturale e contro i ghetti si è trasformata in una battaglia contro “gli immigrati”.
Se dietro questa scelta ci fosse l’elaborazione di una precisa linea politica, l’adesione consapevole a posizione xenofobiche fuori tempo massimo, sarebbe sufficiente rassegnarsi a non votare mai più FDI e lasciare che la storia seppellisca anche questo retaggio di ignoranza politica. Invece ciò che è davvero grave è che, quando mi è capitato di interrogare alcuni tra i massimi dirigenti del partito, ho scoperto che molti di loro non aver neppure visto questo volantino, fatto in fretta e furia perché serviva del materiale da distribuire. La magia del fare.
Tuttavia smentite ufficiali non ne ho lette, e quel che è peggio nessun giornale ha denunciato l’abominio, a riprova del fatto che FDI è ormai catalogata nel ghetto delle realtà residuali, e la sua presunta xenofobia non fa neanche più notizia.
D’altronde tutto questo si riassume nella scelta dello slogan della campagna “Questa è Roma”, che richiama le atmosfere grottescamente epiche del film “300” (la scena in cui Leonida uccide un ambasciatore a tradimento in barba a qualsiasi legge d’onore, e per giustificarsi gli grida “Questa è Sparta”).
Come si può pretendere di governare la capitale d’Italia e della cristianità proponendosi con uno slogan di questo genere, che tra l’altro possono capire in pochissimi?
Ignorare il mondo che cambia
Ma la vera colpa di FDI è quella di non voler vedere un mondo che cambia rapidamente e radicalmente, con una velocità e radicalità che non si esaurisce nel trinomio immigrazione, rom e Europa ladrona.
Il tema dei beni comuni, del riscaldamento globale, dei diritti degli animali, così come il tema delle tutele sociali, dei nuovi indicatori di sviluppo umano, della rapida e terribile trasformazione del mondo del lavoro, dell’accesso all’istruzione, dell’emigrazione, della coesione territoriale, della collocazione in un quadro geopolitico mutevole, sono temi di centrale importanza nell’agenda del mondo intero, e in Italia l’attenzione nei loro confronti è la ragione più profonda della fortuna dei M5S, ma in FDI non trovano il minimo spazio.
A titolo di esempio racconterò un episodio che riguarda il tema a me particolarmente caro, quello cioé legato al rispetto degli animali non umani: un’esigenza crescente sia per ragioni etiche, sia perché ad esempio il sistema alimentare fondato sull’allevamento condanna il mondo al collasso e un miliardo di persone alla fame.
Nella naturale dialettica fra categorie del mondo “civile” e politica, prima delle amministrative le associazioni animaliste hanno proposto ai candidati sindaco di sottoscrivere cinque punti specifici nel proprio programma, che segnassero il passo di una città più moderna a partire dal rapporto con la natura e gli animali.
FDI ha deciso di rispondere alla richiesta non programmando neppure un incontro diretto con il candidato sindaco (indovino che la scelta non sia stata di Giorgia), ma decidendo di convocarli presso un altro dirigente il quale ha aperto timidamente (e verbalmente) soltanto su alcuni argomenti, ribadendo il deciso rifiuto di qualunque impegno scritto e contrastando i punti principali, in particolare la chiusura dello zoo, retaggio oramai medievale.
So benissimo che tra i lettori di queste mie riflessioni pochi condivideranno la mia opinione circa la portata della questione animale, ma a costoro consiglio di riflettere sul fatto che tutti gli altri candidati (tranne Giachetti) hanno aderito convintamente ai 5 punti. Addirittura Marchini, che certo non è un estremista, si è recato personalmente nella sede della LAV per firmare il programma.
È lecito avere opinioni differenti, ma è miope non accorgersi quando si ha a che fare con una realtà dal peso crescente, con la quale si deve ragionare. Quantomeno concedendo udienza diretta ai rappresentanti.
Ora quello degli animalisti è soltanto un esempio di una questione di metodo più che di merito: qualche giorno dopo il mancato incontro, gli organizzatori della campagna elettorale di Giorgia hanno capito che era necessario compiacere il mondo degli animalisti, ma hanno deciso di farlo senza coinvolgere le associazioni che li organizzano: hanno così organizzato una giornata dedicata alla questione, alla quale le associazioni principali non sono state coinvolte. Durante la giornata, Giorgia ha scelto temi e lanciato proposte che qualunque animalista considererebbe assurde. Classico caso di pezza peggiore del buco: molto meglio non parlare di un tema, che rischiare di farlo a sproposito.
Il punto, una volta ancora, non è tanto la questione animale, quanto la prova di un atteggiamento di disprezzo nei confronti di chi ha competenza su un tema. Per alcuni l’approfondimento è considerato più un fastidioso impiccio alla rapidità e all’approssimazione della comunicazione politica, che una risorsa. Potremmo fare decine di altri esempi, che non riguardano gli animalisti ma tutte le mille e una categorie che compongono il tessuto sociale italiano, e che rappresentano con la propria attività la nuova forma di impegno politico.
Per concludere una riflessione del genere non sarebbe bello esimersi dall’impegno di proporre idee in maniera costruttiva, anche per evitare l’accusa di far parte del “partito dei no” (cit.).
FDI può sopravvivere ai propri errori. Se vuole (e non è detto che lo voglia) deve innanzitutto procedere a una radicale riorganizzazione interna. Come tutti i partiti seri, non deve fondare la propria classe dirigente sugli eletti negli enti locali (anche perché ne ha sempre di meno) o sui professionisti dell’amministrazione, e deve scindere radicalmente la fase dell’elaborazione politica da quella della traduzione in prassi.
Deve dotarsi di una direzione nazionale aperta al contributo di idee e pensiero di studiosi, docenti, intellettuali, oltre che dai rappresentanti delle categorie non solo produttive.
Questa nuova direzione nazionale dovrà farsi carico dei problemi culturali della crisi presente, non limitandosi alla contingenza economica ma estendendo il proprio sguardo al mondo che cambia, cercando di prevenire e guidare i processi e proponendo il partito come realtà di avanguardia, in grado di elaborare una proposta politica complessa e radicale, frutto dell’incrocio di competenze messe al servizio del sistema di valori, coraggiosa e in grado di proporre un sereno estremismo armato di ferrea volontà e di sguardo lungo. Interrompere l’affannosa rincorsa alle nicchie di consenso ancora libere e proporsi invece obiettivi ambiziosi, di ampio respiro e di lungo termine, cioè la costruzione di un’alternativa dalle basi culturali e storiche solide, che si distingua per capacità di visione e per modernità tradizionalista.
Alla magia del fare, contrapponiamo la magia del pensare. E poi fare, ma fare bene.
Questa sì sarebbe una rivoluzione.
*Da catoneilcensore.com
@barbadilloit