Eco, che gli preferiva le parole crociate dei patafisici e i texticules di Queneau, lo liquidò quale “ultras della sottocultura cattolica”. Maurizio Cucchi scrisse tranchant che i contenuti delle sue poesie erano “irritanti”. Eppure Rodolfo Quadrelli non chiedeva altro che: “un mondo d’altro tempo / quando virtù teneva amore in grembo.”. L’ostilità della critica schierata, si è detto, potrebbe essere stata, forse, fra le cause della morte prematura a soli quarantacinque anni.
Rodolfo Quadrelli, ricorrendo a un’espressione manzoniana – visto che di Manzoni fu tra gli interpreti più sinceri – chi era costui?
Quadrelli nasce a Milano nel 1939; laureatosi, ottiene ben presto la cattedra di filosofia in un istituto di San Severo, in Puglia; per approdare nel 1967 al prestigioso Liceo Berchet di Milano. Antimoderno, tradizionalista – con la “t” rigorosamente maiuscola – fu un interprete acutissimo della decadenza della civiltà occidentale. Acerrimo nemico delle filosofie razionaliste quanto del marxismo, del liberalismo e del mondo moderno nato dalla Riforma protestante e dalla insurrezione contro lo spirito di Roma, fu un cattolico illuminato; senza rancidumi.
Sostenitore di una visione immanentista del cattolicesimo, temprata dall’idea imperiale di Roma contro le novità del Calvinismo, per Quadrelli, essere cattolico significò prima di tutto adattamento dell’uomo ad una realtà che egli cerca di assimilare il più possibile; ad una natura che vuol dominare anziché essere dominato; ad uno stato di esistenza in cui crea a sua immagine tutto ciò che lo circonda; sul presupposto dottrinale che tutto quel che proviene da Dio è fondamentalmente bene e non può opprimerlo.
La mala bestia per Quadrelli fu il razionalismo; quella “mezzacultura filistea” (Il paese umiliato, 1973) propria dei radicali, la quale porta a considerare come “arretrato”, “incivile”, chi rifiuta la fede nella logica scientista e illuminista.
Quadrelli assistette al crollo della Chiesa Cattolica sotto i colpi delle teologie moderniste, ma non imboccò la strada dell’”eresia” lefebvriana, ritirandosi nella campagna laziale.
Poeta, saggista e traduttore (Eliot, Pound), “voce più alta dell’Italia silenziosa” secondo la formula utilizzata da Marcello Veneziani sul Giornale, nei suoi studi fu tra i pochi della sua generazione che studiò con serietà una materia tanto astrusa come la filosofia portandovi un proprio contributo personale, senza ripetere formule fatte e slogans politici. Disinnescò innanzitutto l’ideologia marxista, rilevandone il punto di contatto con l’ideologia capitalista e liberale. Marx, ci ricorda Quadrelli, è il sostenitore della tesi dell’ideologia quale falsa coscienza: cioè dietro la maschera dei valori eterni dello spirito il filosofo tedesco non vi leggeva altro che la difesa di interessi materiali e particolari. Un’idea che farà scuola: quel solone di Umberto Eco, ad esempio, marchiò come “disonesta” e “puerile” la rivista La Destra di Claudio Quarantotto, sostenendo che dietro il “pensiero reazionario” degli autori che vi collaborarono – come Jünger, Eliade e Vintila Horia – si nascondessero il “Grande Capitale” e il “terrorismo”.
Quadrelli ribatté che la filosofia di Marx è anch’essa ideologia: pur non alludendo allo spirito e all’eterno, promette – utopisticamente – un futuro in cui tutte le contraddizioni, divenute esclusivamente sociali, saranno risolte. Certamente anch’essa non sa sopportare il male del mondo, però il riscatto che offre non è nell’eterno, ma nel futuro; eccola quindi congiungersi con la “fabbrica dei desideri” liberalista. Così la condizione dell’uomo nella società industriale non è per Marx soltanto – come sarebbe per un pensatore tradizionalista – l’effetto dello sradicamento dalla terra, dai riti e dai miti che all’uomo davano senso, ma anche il risultato della logica capitalistica che agisce dietro la maschera dei valori dello spirito. Eppure non è sempre il padrone che opprime il servo, ma i servi paradossalmente si opprimono da sé, quando non abbiano oggetto liberatore da contemplare e celebrare. L’uomo senza “Dio” è un schiavo, o della sua idea viziata di libertà o del teatrino del mondo (“Senza la religione muore tutto, / e l’uomo cade in lutto” scrive Quadrelli in una lirica contenuta nella silloge Commedia, 1977). L’uomo che vive nella società industriale accettandola moralmente è senza scampo servo, e lo è perché vuole esserlo. Il mondo della storia non è inevitabile o irreversibile, e gli errori possono essere espiati o abbandonati, quando si è compreso che essi non sono parte dialettica del progresso dal bene al meglio. La filosofia, quando è pratica (e Quadrelli sottolinea che quasi tutte le moderne lo sono), va verificata per le sue conseguenze, e la domanda che si deve porre è sicuramente “Dove conduce?”.
Con Quirino Principe, Sergio Quinzio e Armando Plebe, Quadrelli scrisse il pamphlet I potenti della letteratura; forse il suo opus magnum (tradotto anche in spagnolo): un atto di accusa contro lo strapotere degli Eco, degli Asor Rosa e degli intellettuali snob e radicali à la Mario Pannunzio. Ascari delle ideologie contro cui Quadrelli, fino alla fine, dovette combattere.