Un’analisi del successo a Roma e Torino dei 5 Stelle
Vivere in uno story-telling parallelo non basta a vincere le elezioni. Il Partito democratico le ha buscate sonoramente ma, a dirla tutta, almeno è riuscito a essere (tranne che a Napoli) protagonista del “girone di ritorno” dei ballottaggi cosa che invece non è successa alle destre. Se scontata era la vittoria di Virginia Raggi a Roma, meno che arrivasse con tanto clamore: quasi il 70% che va a fare il paio con l’affermazione di Chiara Appendino a Torino dove Piero Fassino – che ricorderà per sempre la sonora lezione dell’esser divenuto la Cassandra di se stesso – è stato spodestato nella città faro della “coesione istituzionale”. A Napoli la vittoria bis di Luigi de Magistris (rimarcata sul Fi appoggiato anche da segmenti deluchiani del Pd Gianni Lettieri, che perde di nuovo quasi doppiato) rappresenta un successo che conserva l’impronta anti-sistema e che, grazie anche al protagonismo dei centri sociali – si è marcatamente sbilanciato su posizioni di ultrasinistra. Sarà da verificare se all’annuncio – uguale a quello di cinque anni fa – e relativo ai lavori per la fondazione di un partito autenticamente “arancione” (e magari meridionalista?) fondato sulla leadership del sindaco napoletano sarà dato seguito o se ci si incarterà, come successo la volta scorsa, tra adesioni annunciate e ritirate nelle amministrazioni comunali dei centri minori.
A Bologna e Milano ha vinto il Pd. Però, a voler essere puntigliosi, a Bologna ha vinto Merola che è uno vicino alla Cgil e che alla maratona di Mentana non ha smesso un attimo di esortare il Pd a ritornare nelle periferie, a richiamare l’attenzione sui ceti popolari, uno che ha testualmente ripetuto come la sicurezza “debba tornare a essere parola di sinistra perché colpisce gli strati meno abbienti della società”. Tutto il contrario del partito dei megadirettori che a Milano, con l’affermazione risicata di Beppe Sala, l’ha spuntata contro l’agguerrito tandem Parisi-Albertini contro cui, a sua volta, s’è scagliata parte della Lega tanto che il senatore Raffaele Volpi, plenipotenziario di “Noi”, ha rimbrottato il candidato del centrodestra rimproverandogli la responsabilità della sconfitta a causa di posizioni poco marcate su euro e moschee, temi carissimi al leghismo salviniano.
Tematiche portate avanti con determinazione al limite del parossismo e che però non sono bastate perché se è vero che su facebook (e su twitter, nel caso dem) certe posizioni acchiappano più like di Zoff che alza la Coppa del Mondo. Solo che facebook non è tutto e vivere nel mondo virtuale non risolve l’esistenza e perciò nemmeno può rappresentare una seria strategia politica. Salvini deve fare i conti con la realtà: il progetto, al Sud, è naufragato anche perché gli elettori meridionali non riescono proprio a perdonare alla Lega quasi trent’anni di ingiurie, cori e posizioni apertamente ostili.
Il trionfo di Cinque Stelle e candidati anti-estabilishment è segnale conclusivo di una seria distanza dagli italiani dalle chiacchiere. Non è che vivendo in uno story-telling alternativo, fatto di “mi piace”, “clicca qui!”, “No ai gufi”, “svolte buone”, demonizzazioni, blandizie, cherubinate, disoccupazione che scende ma anche no, si vincono le elezioni. Il paradosso: la lezione arrivi ai due grandi sconfitti, Renzi e Salvini, proprio da un movimento che della “rete” e delle nuove tecnologie, ha fatto la sua ragione sociale. E che ora ha dimostrato pure di essere radicato sui territori e saper parlare il linguaggio della realtà meglio dei leader degli schieramenti avversari.