Nella sede distaccata del MART di Rovereto, in quel luogo assolutamente unico che è la Casa d’Arte Futurista Fortunato Depero, è ospitata sino al 25 settembre 2016, la mostra: La Città Utopica. Dalla metropoli futurista all’EUR42. Nell’ambito delle celebrazioni nate intorno ai 500 anni dalla pubblicazione del testo Utopia (1516) di Thomas More, sono esposti disegni, progetti e documenti provenienti dalle collezioni dello stesso MART, ma anche dal Museo Civico “Ala Ponzone” di Cremona, dall’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Bologna e dagli archivi di Luigi Saccenti e e Quirino De Giorgio di Vigonza. Opere grafiche che hanno rappresentato il tema della città come luogo privilegiato della modernità, del futuro, della velocità, tutte parole chiave del movimento futurista.
Nei lavori degli artisti che sposarono a inizio del XX secolo tale corrente artistica, il paesaggio urbano da statico diventa mobile, in funzione della nuova ideologia della macchina. La mostra in corso a Rovereto presenta i lavori di cinque grandissimi esponenti di quel periodo nell’ambito della progettazione: Tullio Crali, Quirino De Giorgio, Angiolo Mazzoni, Adalberto Libera e, soprattutto, Antonio Sant’Elia, la cui straordinaria, quanto impossibile, visione architettonica fa da filo conduttore della esposizione.
Molti architetti, nel periodo tra le due guerre, hanno contribuito alla costruzione di una versione tutta italiana dell’utopia, la quale parte dalle cosiddette città di fondazione dell’Agro Pontino, per terminare col sogno interrotto dell’E42 (Oggi EUR). Quella di cui stiamo parlando è una mostra di una architettura d’archivio, incompiuta nel concreto, ma non certo nella riflessione. Sicuramente, è un evento per palati raffinati, per coloro che studiano i collegamenti tra il futurismo e il Razionalismo Italiano. Ciò che veramente rallegra di questa esposizione è la chiarezza con la quale si mette in evidenza suddetto legame, proponendo una tesi che, a nostro avviso, è innegabile. Ovvero, l’utopia si manifestò nel nostro Paese come il sogno dei futuristi, ma venne, almeno parzialmente, concretizzata dall’architettura razionalista. Molto si deve a quella tela spartiacque di Umberto Boccioni che fu La città che sale (1911), dove venne introdotta prepotentemente una rappresentazione totalmente simbolica del contesto urbano, che coincide con la celebrazione del progresso, con l’incessante movimento della civiltà industriale.
Il vero protagonista di questa mostra è Antonio Sant’Elia, un tipo di genio un po’ folle, il cui estro visionario dei progetti non gli impedì di maturare una ben meditata analisi su quello che avrebbe dovuto essere per lui un nuovo modo di pensare l’architettura e la città. Un punto di svolta è stato il suo Manifesto dell’architettura futurista, (Milano, 11 luglio 1914), con tutto il suo enorme portato di modernità, e la ferma volontà di rompere con la Tradizione: “[…] un’architettura che abbia la sua ragione d’essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna […]. Quest’architettura non può essere soggetta a nessuna legge di continuità storica. Deve essere nuova come è nuovo il nostro stato d’animo”. Le parole di Sant’Elia rimbombano ancora oggi per il loro vigore, per la inarrestabile vitalità che esprimo. A esser sinceri, proviamo una certa nostalgia per una tale visione eroica dell’arte, in una epoca come la nostra, infestata da artisti a dir poco ridicoli e archistar gauchiste dall’ego ipertrofico e dai conti in banca addirittura più gonfi!
La curatrice della mostra, Nicoletta Boschiero, descrive sinteticamente, ma in modo corretto quella che fu la fulgida e purtroppo breve parabola creativa di Sant’Elia (morto nemmeno trentenne al fronte della Grande Guerra), quale una: “Architettura sperimentale affrancata dall’onere di una costruzione reale” (12). La studiosa indica giustamente una dicotomia che rianima la questione su come mentre nel disegno e nella pittura si cerchi di inserire forme in uno spazio immaginato e soggetto alle regole dell’artista; per converso, in architettura si tenta di conquistare e vincere lo spazio con le forme. Non condividiamo con lei, tuttavia, l’idea che quelle realizzate durante il Ventennio siano solo delle città utopiche, visto che ella sostiene, sempre nel catalogo della mostra, come: L’immagine offerta dalle città pontine è quella di uno spazio predisposto per una funzione simbolica, adatta a officiare i riti del regime, per celebrare le sue disciplinate manifestazioni popolari. Sabaudia sembra per altro anticipare il concetto di non luogo, di città senza un’identità precisa e riconoscibile, essendo gli spazi senza storia e quindi inadeguati ad accogliere le relazioni tra le persone che vi abitano (17).
Come si può ignorare che le città di fondazione prima e l’EUR poi siano stati capaci di radicarsi nell’immaginario popolare, tanto da diventare set prediletti da cineasti del calibro di Fellini, Petri e, più recentemente, Paolo Sorrentino? Riteniamo che sia più giusto affermare che la concezione urbanistica del Ventennio aveva sì una chiara propensione verso una utopia di stampo sociale, la quale è stata portata a uno stadio almeno iniziale di compimento, aspetto che la fa ormai considerare in tutto il mondo come la massima espressione dell’architettura del XX secolo. Siamo certamente più d’accordo con la Boschiero quando definisce l’EUR un: “[…] luogo predestinato a una narrazione utopica” (18). Vi è, infatti, in questo che è l’ultimo tra i nuovi quartieri di Roma (il Casilino, il Prenestino, come pure l’evoluzione del più storico Tiburtino, non possono essere degni di qualsivoglia attenzione critica, essendo esclusivamente l’epitome di quella edilizia cafona, e da dormitorio urbano, che è il triste simbolo dell’Italia Repubblicana) una anima capace di raccontare, come se fosse una singola idea che ha preso forma di ragionamento.
Tornando a Sant’Elia, in esposizione troviamo il suo disegno per il concorso per il Diploma di Professore di Disegno Architettonico presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna: Facciata con portale di un transetto di grande chiesa metropolitana di una città capitale (1912). Questa opera grafica è forse la quintessenza del modo che egli aveva di concepire degli edifici praticamente da fantascienza e da un gusto assiro-babilonese nella loro monumentalità. Nella esposizione si ricorda, a tal proposito, come il lavoro di Sant’Elia abbia influenzato il cinema a partire dal capolavoro di Fritz Lang, Metropolis (1927). Noi ci vogliamo spingere persino più in là, vedendo dei, sicuramente involontari, collegamenti anche con il manga di Katsuhiro Ōtomo, Akira (1982 – 1990). Per dire che se vi è mai stata una visione univoca di come dovesse essere la città del futuro, questa è merito di un italiano chiamato, per l’appunto, Antonio Sant’Elia!
Ovviamente spazio, considerando la sede, è stato dato pure a Fortunato Depero, con il bellissimo New Babel (1930), dove troviamo un Depero sorprendentemente “violento” nella sua “meccanica”. Si passa poi dalla grafica, alla pittura vera e propria con quello che è, assieme a Gerardo Dottori, il maggiore tra gli esponenti della “aeropittura futurista”: Tullio Crali; il quale rese su tela le “visioni” di Sant’Elia: Aeroporto stazione. Aeroporto urbano (1931). Ancora una volta ritorna il debito di una intera epoca verso di lui, e non stupisce come anche il fascismo si rese conto della importanza artistica di Sant’Elia, celebrandolo quale: “uno dei maggiori orgogli” del Regime, come recita il manifesto delle Onoranze all’architetto futurista Antonio Sant’Elia (Como, 1930).
Un dato critico va comunque chiarito, anzi messo nero su bianco. La tematica urbana, onnipresente nella produzione futurista, ha prodotto soluzioni assai meno brillanti in architettura, limitandosi perlopiù a delle esercitazioni grafiche. Uno studioso della qualità di Manfredo Tafuri (1935 – 1994) identifica con precisione tale limite: “Si tratta di quella avanguardia che, alla prova decisa dei fatti, nello scontro con le forme di costruzione e mediazione del consenso, è stata ridotta a pura propaganda” (Manfredo Tafuri, Architettura e storiografia: una proposta di metodo, in Arte Veneta, Venezia, XXIX/1975, p. 278). Se è vero, come indica Tafuri, che l’architettura futurista abbia trovato una cristallizzazione nel confine tra teoria e prassi, non possiamo non ravvisare nel suo pensiero un palese “vizio politico”, che gli ha impedito di mantenere il giusto distacco intellettuale verso l’architettura di quell’epoca. Una tara vera e propria, la quale ha similmente condizionato la lettura del Razionalismo di un altro importante studioso come Bruno Zevi. Resta il fatto, che con piacere troviamo nella pubblicazione ufficiale che accompagna questa mostra il nome di Tafuri, un personaggio fondamentale nella storia della critica architettonica, quanto sistematicamente ignorato al di fuori di questo particolare settore di studi.
Concludiamo con Quirino De Giorgio, forse il meno conosciuto tra i cinque artisti presenti nella esposizione, malgrado venne consacrato da Marinetti in persona quale un secondo Sant’Elia, come si capisce anche dal suo Monumento ai caduti del mare (1931), nel quale De Giorgio mutua da questo genio prematuramente scomparso quelle vertiginose linee ascensionali che Roberto Floreani ha definito: “visionarietà razionale”. Con l’attenuarsi dell’esperienza futurista, De Giorgio sposerà sia politicamente che artisticamente il fascismo, inserendosi in quel titano multiforme che è stato il Razionalismo, divenendo praticamente l’indiscusso protagonista dell’architettura commissionata dal Partito Nazionale Fascista (PNF), cosa che gli causò non pochi problemi al termine della guerra.
E su Adalberto Libera e Angiolo Mazzoni? Non diciamo nulla? Purtroppo, vi sono delle differenze tra un articolo e un saggio, tra tutte, la lunghezza, quindi non possiamo dissertare ulteriormente, specialmente se si tratta di due figure degne di tomi su tomi. Possiamo solo consigliare di ammirare le immagini e i progetti di questi due autentici mostri sacri, il cui lavoro è stato un sublime tributo alla ineguagliabile storia dell’architettura italiana.
Tirando le somme, trattasi di una mostra preziosissima, nella quale si celebra la genialità che ha fatto della nostra nazione la patria dell’arte del costruire, nonché della speculazione intellettuale su di essa; dalla Magna Grecia, passando per i Romani, sino al De re aedificatoria (1450 ca.) di Leon Battista Alberti, proseguendo con il Barocco e il Settecento, giungendo alla monumentale edilizia umbertina. Ecco, siamo infine arrivati agli anni raccontati in questa esposizione, la quale ci permette di concludere senza dubbi di sorta che l’esperienza del Razionalismo altro non è stata se non l’attuazione delle ricerche futuriste nella progettazione, o meglio sarebbe più opportuno dire, nella sua concezione utopica.