
Le ragioni della poesia ritornano. Una nota scrittrice russa, Ludmilla Ulitskaya, dichiara che nel suo paese vi è una vera “fioritura” di poeti. Per alcune esperienze, anche in Italia, rivive la scrittura in versi grazie ad un giovane pubblico che sente il bisogno di sincerità, di lirica sincerità. Dopo un decennio di letteratura da intrattenimento, allora, il lettore comincia a chiedere più autenticità. Nel recente Salone del Libro di Torino, poi, abbiamo assistito ad incontri appassionanti con i poeti e un nome ricorrente è stato quello di Maurizio Cucchi. Inoltre, la sua nuova pubblicazione Mondadori, ‘Poesie 1963 -2015’ consente di fare un punto della situazione per discutere del futuro dei poeti italiani.
Nei manuali di letteratura dovrebbe riaprirsi il confronto sulla storicizzazione della poesia nella seconda parte del Novecento. Troppi docenti non insegnano una generazione di scrittori di poesie, Milo de Angelis, Giuseppe Conte, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen e Maurizio Cucchi, il poeta milanese, ex direttore della rivista “Poesia”, il viandante lombardo che racconta il suo mondo con disincanto céliniano. Di sicuro i versi raccolti nell’antologia mondadoriana danno oggi l’occasione per ritrovare le tonalità del mito di Jeanne d’Arc, ossia tonalità drammatiche non sempre rintracciabili nell’opera Cucchi, “Umido di marcio e fango. / La peste del nulla. / Il velluto rosso del patibolo, un tumulo. (…) Il predicatore additava largamente il boia e lei / cominciava un po’ a cedere e si sentiva svenire”, da “Janne d’Arc e il suo doppio” (2008). L’opera poetica fa di Cucchi l’interprete dell’anima milanese e di un mondo che non c’è più. Ecco le immagini meneghine che desiderano divenire prosa, “L’ambulatorio del dottor Markstahler / si affacciava sul corso Buenos Aires / come un negozio di drogherie, verniciato / di verdone e il titolare era un uomo/ gentile…” La voce del poeta diviene testimonianza mentre la città si svuota e le fabbriche chiudono, così vive “L’uomo della Bovisa” con lo sguardo nel paesaggio industriale, uno sguardo che scopre “la muta dignità delle rovine”- in “Poesia della fonte” (1993).
Cadute certe egemonie culturali, il panorama dei poeti degli ultimi cinque decenni è più libero; per questo riconosciamo Milo de Angelis come un poeta nicciano che congela il tempo e congela il senso della scrittura; Giuseppe Conte come la voce della rivincita etica ispirata da Borges o Whitman; e Maurizio Cucchi come l’artista che disegna, con versi minimalisti, una Milano/quadro “con suggestioni riconducibili alla pittura di Sironi” – e lo scrive Alberto Bertoni nella bella introduzione alla raccolta. Insomma desideriamo tornare a discutere dei maestri, perché la poesia italiana non finisca con Montale. Ci sono percorsi di idee e tappe esistenziali da seguire, da storicizzare, per rispondere criticamente al paradigma della morte della poesia. Con tutto questo, è possibile arrivare all’ultimo Cucchi, al poeta di “Malaspina” (2013) che raffigura una post-modernità in cui il tutto si confonde, il poeta diviene ‘Console o Capitano’ e il suo racconto entra in un Novecento avventuriero, dannunziano, pre-fascista in cui riconoscersi, per poi scomparire, inevitabilmente, nella vanità o nella delusione storica.
L’operazione editoriale della Mondadori, con la quale si fa un bilancio di mezzo secolo di poesia, consente di avvicinare il grande pubblico a quegli scrittori di versi che hanno continuato ad esprimersi mentre si discuteva della fine dell’esperienza delle voci liriche o dell’ipertrofia della soggettività. Così la pubblicazione dedicata a Cucchi rammenta quelle rotte sicure per continuare la navigazione nell’oceano dei versi della contemporaneità, per non smettere di sentirsi come un “viaggiatore di città”, il quale “Si crede indifferente, estraneo, / ma qualche volta lo prende la memoria, / lo turba un sentimento dissepolto”.
*”Poesie 1963-2015″ di Maurizio Cucchi, (euro 13, Oscar Mondadori)