Dio stramaledica i conformisti. E salvi gli eretici. Frondista sotto il fascismo, antidemocratico in democrazia, sempre controcorrente, Leo Longanesi esemplifica l’eresia di un ribelle e la nostalgia di un conservatore “in un Paese in cui non c’è niente da conservare”. Inutile ripercorrere il contributo dato al giornalismo, alla grafica, alla pittura e persino al cinema da parte del “carciofino sott’odio”, artigiano della parola e del segno. A settant’anni di distanza dalla fondazione della casa editrice, l’omaggio al capostipite è un volume – “Il mio Longanesi” – affidato alla sagacia e alla passione di Pietrangelo Buttafuoco, che da quel genio ha ereditato la capacità di non farsi trovare dove gli altri vorrebbero che fosse.
Il compendio di brani tratti dai libri del fondatore de “L’Italiano”, “Omnibus” e “Il Borghese”, immaginato dalla scrittore siciliano per sottrarlo agli imitatori che vorrebbero ridurlo a battutista anticipatore dei cinguettii in 140 caratteri, è uno scrigno da cui estrarre pepite. Pensieri che non luccicano, anche se son quasi tutti d’oro, rifulgenti nell’attualità di analisi e spunti d’una profondità che è l’esatto opposto della superficialità social e del citazionismo spicciolo. E che, una volta letti, restituiscono il gusto di un anticonformismo autentico, di cui c’è fame come il pane. Accanto agli aforismi memorabili, icastici e affilati, tipici del Longanesi graffiante, il volume consente di approfondirne la capacità di analisi lucida e a tratti preveggente di un artista che accompagnò l’Italia nella modernità. Da giovane intrinsecamente fascista, ma di quel fascismo in cui il retrogusto romagnolo e sansepolcrista non è più – o non è ancora – sotterrato sotto una coltre di silenzi e letture comode, Longanesi fu soprattutto un anarchico. In una didascalia del libro “Una vita” si legge: «Ma il vento / il vento che piega i cipressi/ perché non solleva, Gesù Maria / la vecchia bandiera dell’Anarchia?».
In morte della fantasia
Il suo sguardo è intenso e premonitore. Ciò che Longanesi intuisce il cinema farà alla letteratura, è presagio di una televisione che entrerà di prepotenza nella case degli italiani dopo la sua morte. «Le pellicole hanno assorbito tutti gli svaghi del pubblico, uccidendone la fantasia; chi va al cinema sottrae ai libri tempo e quattrini (…) Nessun libro darà mai al lettore medio la gioia di un film, che richiede scarsa attenzione e concede più varietà di sensazioni». A pensare a qualche interno di vagone metropolitano, con l’istantanea di tanti atomi col grugno incollato a uno schermo, viene da chiedersi: cos’è, quella solitudine meccanica, se non la morte della fantasia presagita da Longanesi? Con l’arguzia di chi sa graffiare in superfice ma conosce la profondità, già intuisce che la livella è la nuova moda dell’ineluttabile capitalistico, nemico della cultura. «Il mondo moderno – scrive in “Fa lo stesso” – tende a semplificare e a livellare ogni cosa: oggi tutto si compendia, si riduce all’essenziale, al minimo; come il prodotto in scatola è contrapposto a quello naturale, così il sapere in pillole è contrapposto alla cultura, a vantaggio dell’ignoranza generale».
Fascismo e antifascismo
«Mussolini mette il proprio malessere, la propria tecnica di ribelle e il proprio fermento rivoluzionario al servizio delle minoranze borghesi», scrive Longanesi nel volume “In piedi e seduti”. Roba di Romagna, il fascismo, sangue e slanci, per lui e per chi vivrà vent’anni «in una continua altalena di speranze e delusioni». Longanesi è spietato nel fare strage delle contraddizioni insite nel rapporto tra gli italiani e un fascismo esaltato senza abbandono, ridicolizzato senza astio. Ma se il fascismo è “chiesa di tutte le eresie”, un eretico come Longanesi non può trovarsi a suo agio tra gli improvvisati denigratori, i carrieristi d’ogni colore, i voltagabbana dell’ultima ora. «A un tratto, dimentichiamo di avere seguito o almeno ubbidito a Mussolini, e che il buon tiranno, cadendo, ha portato con sé venti anni della nostra giovinezza», scrive. Ironizza sul pressapochismo di chi scappa in braghe di tela dalle proprie responsabilità e dall’Italia, e Buttafuoco cita con gusto “sette dettagli” che mostrano come lo Stato si sia sfasciato nell’anteprima di quella che sarà la guerra civile. Frondista sotto il fascismo, resterà antidemocratico, fustigatore della furia iconoclasta dell’antifascismo di quanti «custodiscono i loro meschini sogni di vendetta con l’astio e il moralismo delle vecchie zitelle contro le giovani spose», o di quanti «pettegoli e piccoli borghesi», vivranno dello spettro di un cadavere appeso a testa in giù con «un moralismo così meschino e cieco che li priva di ogni libertà di giudizio».
La borghesia scomparsa e il germe del Sessantotto
Se saranno le vecchie zie a salvarci, di sicuro i nipoti non sono più gli stessi. E’ la crisi di una borghesia forse solo immaginata. Anche qui, lo sguardo vede in avanti, prefigurando il germe che diventerà pustola generazionale e sessantottina. «L’animo di quei borghesi è rimasto attaccato al loro gilè bianco, non vive più sotto i pullovers degli eredi. I figli, i nipoti, i pronipoti di quei vecchi borghesi non vogliono più sembrarlo; vogliono diventare qualcosa di diverso, qualcosa d’altro (…) E’ ricco, ma è debole questo nuovo borghese, perché “intimamente ed eternamente incapace di ricchezza”: potente, trema per un dazio, sussulta per una circolare, palpita per un articolo di giornale». La crisi e la finanziarizzazione del capitalista è dietro l’angolo, questa sì inevitabile. «Il capitale ha perduto forza: è soltanto un peso, un peso da difendere: non seleziona, non raffina. Chi possiede un miliardo, possiede novecentonovantanove milioni di più di chi ne possiede uno soltanto: è una differenza di zeri, fra gente che vale zero». Distaccati dal reale, sterili, i nuovi borghesi «ritornano numeri, consumatori di idee altrui, credenti che non credono, padroni che non comandano».
Una fruttiera sul Colle
Profezie affidate alla lama dell’ironia. Il mago Buttafuoco tira fuori dall’infinito cilindro longanesiano un passaggio sulla Presidenza della Repubblica che stordirà, per i fischi, le orecchie incerumate dalle parti del Quirinale. «Un Presidente deve essere qualcosa che stia fra il nonno e il re, fra il preside di liceo e un busto al Pincio (…) e soprattutto, conoscere l’arte di apparire inanimato come un oggetto di gran valore, una fruttiera d’argento, ad esempio, posata sulla credenza di una casa borghese». Non c’è forse una fruttiera d’argento, oggi, nel salotto buono del pifferaio di Pontassieve?