Ci voleva il genio visionario di Karl Ove Knausgard per cercare di affrontare a livello filosofico e letterario il mistero del cervello. Eccolo allora lo scrittore norvegese, celebre per la sua autobiografia in sei volumi intitolata “La mia battaglia” – per alcuni soporifera per altri un capolavoro – indossare il camice ed entrare in sala operatoria albanese dove un chirurgo sta portando avanti una operazione al cervello con il paziente sveglio. In un pezzo pubblicato dal New York Times Magazine.
E Knausgard è lì che descrive e racconta. Ovvio che lo scrittore si lascia andare ad una descrizione escatologica della scena: quel lettino diventa la rappresentazione della vita e dei principali problemi dell’esistenza. Tutto però nasce da una descrizione che separa la carne dallo spirito.
“Avevo sempre considerato i miei pensieri qualcosa di astratto, ma non lo erano, erano fatti di materia come il cuore che batteva nel mio petto. E lo stesso discorso valeva per la mente, l’anima, la personalità, era tutto fissato nelle cellule e dipendeva dai vari modi in cui interagivano tra loro. Anche tutti i nostri sistemi, il comunismo, il capitalismo, la religione, la scienza erano frutto delle correnti elettrochimiche che scorrono attraverso quel chilo e mezzo di carne chiuso nel nostro cranio”.
Il punto esatto da cui nascono i nostri pensieri, che noi riteniamo forse la maggiore rappresentazione del concetto di immaterialità, è in realtà un pezzo di carne. Un chilo e mezzo di carne dentro la nostra scatola cranica. Potrebbe sembrare un passaggio scontato. In realtà tutto lo spirito di osservazione e analisi dello scrittore sta tutto nella chiusura.
“A guardarlo (il cervello, ndr) non si capiva. Era come esaminare una pietra delle fondamenta della basilica di San Pietro per trovare il segreto di tutto l’edificio”.