Nome da biplano fiammeggiante nei cieli d’Europa, Diavolo Rosso è l’orgiastico foxtrot scritto da Paolo Conte nel 1982, contenuto nel disco Appunti di Viaggio. Il pezzo, tuttavia, trova autentica dimensione dionisiaca nelle esecuzioni dal vivo, passando da poco meno di quattro minuti della versione in studio, a più del doppio, in frenetica tensione senza sosta, talvolta ospitando assoli di clarinetto, violino, fisarmonica, pianoforte, come in un cesello klezmer novecentista o in un music-western riadattato alle Langhe. Diavolo Rosso è, nel brano di Conte, il ciclista Giovanni Gerbi (Asti, 4 giugno 1885 – Asti, 6 maggio 1955), pioniere delle due ruote su strada: leggenda vuole che il soprannome venne affibbiato da un parroco quando, durante una fuga, Gerbi transitò nel bel mezzo di una processione religiosa. Il prete, vedendo questa incursione iconoclasta, apostrofò il ciclista in maglia rossa: “chial’è chel diau!” (Chi è quel diavolo!). Da quel giorno l’appellativo divenne leggenda e narrazione meta-sportiva. Tutta mitologia eroica del ciclismo primigenio, quello della fatica e delle implicazioni romantiche. Tutta fantasmagoria del futuribile o del dirigibile, come il rombo del motore o lo sferragliare del treno au printemps, tradita però da esiti che ne smarrirono lo stile, facendo confluire tutto nella frigida modernità attuale.
L’avvocato astigiano recupera così la foto ingiallita di Gerbi per farne un affresco campestre, raccontando con piglio celiniano – presente il ritmo sincopato della scrittura, in Viaggio al termine della notte e Morte a credito? – l’almanacco di un mondo scomparso, fatto di vuoti dislivelli nel dolce paesaggio piemontese, di stupefazione e paracarri ai lati della fuga. C’è l’idea di velocità, funambolico fendente umano su due ruote, a squarciare l’arcana ed immobile cartolina rurale, c’è il futurismo parolibero e dinamico, ma come sempre in Paolo Conte, riportato all’umana pochezza, estetizzato in vetrinette di ricordi desueti, in mercatino delle pulci. Il ritmo infuocato, sorretto da chitarre che mettono in loop Morricone per quasi un quarto d’ora, evoca fumisterie e deragliamenti, in un vorticoso incedere stordente. Ci pensa Conte, però, a riportare l’ascoltatore coi piedi per terra, con la sua mimica accigliata e il bofonchiare jazz, attraverso parole buttate lì con disincanto: “Diavolo rosso dimentica la strada, vieni qui con noi a bere un’aranciata, contro luce tutto il tempo se ne va…”
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A far da sintesi iconica c’è il ratafià, infuso di frutta ed alcol originario del biellese. Come spesso accade negli scarabocchi sonori del baffuto monsieur, ci s’imbatte in un carillon di affascinanti obsolescenze, aromatizzato da esotismi salgariani e distillato con autarchica snobberia. Tutto è gesto, elegante giravolta, piroetta illusoria di un prestidigitatore: “Girano le lucciole nei cerchi della notte… questo buio sa di fieno e di lontano e la canzone forse sa di ratafià…”. Diavolo Rosso è incantesimo per serpenti, il rettile sale ondulando in verticale fuori dalla cesta, così come al pubblico è inibita l’immobilità della contemplazione, mentre il piede batte a terra nervoso, seguendo il tempo. Corre, corre, corre, scappa tra filari di contadini immobili, drogata di vermouth e adrenalina, la bicicletta di Germi, quasi facendosi motto da meridiana: presto che è tardi! Capolavoro inattuale, Diavolo Rosso s’inerpica chissà dove, ben lontano dalla forma-canzone del melò tricolore, per farsi tributo unico ed irripetibile dello stile che fu, tutto il romanzo proustiano, messo negli abissi in dieci frasi e poco più.
@barbadilloit