Chi uccise Giovanni Gentile, chi furono i mandanti e perché fu ucciso? Non sono tre domande di un ingiallito thriller politico ma ruotano intorno a un evento simbolico cruciale per la storia intellettuale e civile d’Italia. Perché su quell’assassinio poi si legittimò la Repubblica ideologica del nostro paese, si fondò l’egemonia culturale e il ruolo dell’intellettuale organico.
Chi uccise Gentile il 15 aprile del 1944 a Firenze? Lo sappiamo da sempre: un commando comunista dei Gap. Sull’esecutore materiale del delitto la versione canonica dice Bruno Fanciullacci, ma Stefano Mecacci nel suo bel libro sull’assassinio Gentile, la Ghirlanda fiorentina (ed.Adelphi), propende per un partigiano minore, Giuseppe Martini, nome di battaglia “Paolo”. Ma delle tre domande da cui siamo partiti, è forse la meno importante. Non cambia molto sapere chi materialmente eseguì la sentenza di morte. Ci basta sapere che furono i gappisti del Pci. E ci basta notare che all’assassino ufficiale di Gentile, Fanciullacci, è dedicata a Firenze una strada; invece non è dedicata una strada alla vittima, l’ultimo grande filosofo d’accademia, gran ministro, gran promotore della cultura e tutore di molti studiosi antifascisti. Ci pensino il premier fiorentino Rensi e il presidente venuto dal comunismo, Napolitano. Il 70° della sua morte, il prossimo 15 aprile potrebbe essere l’occasione per un atto riparatore.
Chi ordinò l’uccisione di Gentile? Qui il quadro si complica e Mecacci per includere tutte le ipotesi ricorre alla metafora dei cerchi nell’acqua, dal cerchio dei mandanti ai più periferici, per arrivare agli esecutori. Una metafora che potrebbe adottarsi anche per altri delitti, come il caso Moro, passando dal cerchio delle Br, ai poteri interni conniventi e ai servizi segreti stranieri. Mecacci non esclude nulla: il Pci “fu il principale attore dell’organizzazione materiale dell’attentato” che poi rivendicò apertamente, ma pure i servizi segreti britannici e americani, Radio Londra, Radio Bari e Radio Cora, gli intellettuali fiorentini e milanesi, senza escludere alcuni azionisti vicini ai servizi segreti alleati, i fascisti intransigenti e i massoni. Non un complotto o una convergenza di interessi, precisa l’autore, ma “una concatenazione di decisioni strategiche”. Però una sintesi più calzante si può fare. Gentile fu ucciso dall’Intellettuale Collettivo che è la definizione di Gramsci del Partito Comunista, ma è anche il gruppo di professori e intellettuali organici al Pci, vicini a Secchia, a Longo, Li Causi e Togliatti, rientrato un mese prima dell’uccisione di Gentile dall’Urss. Fu proprio il leader del Pci a rivendicare l’esecuzione, usando definizioni infami di Gentile: canaglia e camorrista, immondo e corruttore, bandito e bestione. Più deprimenti furono i giudizi, le condanne e il plauso all’assassinio provenienti da quegli intellettuali. Le spregevoli parole scritte da Concetto Marchesi, da Antonio Banfi, che fino a pochi mesi prima seguitava a chiedere e ottenere favori da Gentile, da Eugenio Curiel. E poi il ruolo di Banchi Bandinelli, amico di Gentile e accompagnatore deferente di Hitler in visita a Firenze nel ’38. E il ruolo Mario Manlio Rossi, di Giorgio Spini e di Carlo Ludovico Ragghianti e quello di Eugenio Garin, prima devoto a Gentile e poi compiacente verso il Pci; di Cesare Luporini, reticente sul delitto Gentile, e di tanti intellettuali. I loro nomi e le loro storie rimbalzano nelle pagine di Mecacci. Quasi tutti debitori verso Gentile o verso il suo pensiero, come del resto Gramsci e Togliatti. L’ho sottolineato curando gli scritti gentiliani raccolti in “Pensare l’Italia”. Fu disgustoso come poi denigrarono Gentile come filosofo e come uomo. Ai suoi funerali, scrisse il giovane Spadolini, non c’erano accademici (solo tre), non c’erano intellettuali, ma c’era un’immensa e commossa partecipazione di popolo.
Ma la trama si complica ancor più se ci chiediamo perché fu eliminato. Certo non fu punito per il passato, semmai fu un modo per eliminare attraverso lui il loro passato, per occultare le loro compromissioni col regime. Chi lo uccise volle troncare il suo appello dal Campidoglio alla pacificazione tra fascisti e antifascisti, che da Mosca Togliatti aveva attaccato duramente. Lo uccisero non per l’adesione alla Rsi ma per l’appello alla concordia nazionale. Era la tesi che un tempo circolava solo nelle ristrette vulgate della destra, fin negli opuscoli dei missini; oggi diventa la più credibile motivazione storica del suo assassinio.
Ma Mecacci allude a un ruolo futuro che avrebbe potuto avere Gentile. Qui il mistero s’infittisce e si collega a due cose: cinque giorni prima era stato ucciso il suo segretario nell’Accademia, Fanelli, da cui si cercavano documenti riguardanti Gentile. E il 18 aprile Gentile avrebbe dovuto incontrare Mussolini a Salò. A tale proposito, una collega d’ateneo di Mecacci, Daniela Coli, mi riferisce che nell’ultima lettera inviata a Mussolini, che le mostrò il nipote omonimo di Giovanni Gentile, il filosofo concludeva fiducioso: “E noi ci ritroveremo a Roma. Ci aspetta Roma, Roma Roma!” Una lettera strana, anche nel tono, se confrontata con le precedenti. Per la Coli “c’era un progetto politico forte di ricomposizione e magari di sganciamento da Hitler e passava attraverso Gentile”. Mecacci non esplicita questa tesi ardita, ma sembra avvicinarvisi. E anche per lui Gentile non fu ucciso per il suo passato ma per il futuro. E’ un’ipotesi, naturalmente. Più chiaro è il significato e l’effetto culturale e simbolico di quell’uccisione. Fu un parricidio rituale e un paradigma a cui attenersi, un codice ideologico di comportamento per il futuro. O gli intellettuali si redimevano passando al Pci, come i Banfi, i Garin, i Bianchi Bandinelli, i Bilenchi, in parte gli Spirito e i Malaparte; oppure sarebbero stati emarginati e rimossi, come accadde ai Volpe, i Pellizzi, i Soffici, i Papini o Evola, ma anche ai Prezzolini, i Morselli, i Del Noce e poi altri. L’uccisione di Gentile, la denigrazione postuma, la rimozione di ogni memoria, fu il peccato originale su cui si fondò il sistema ideologico-mafioso italiano, fu il parametro per misurare gli ammessi e gli esclusi, in accademia e non solo, fu il preambolo alle omertà successive e alle perduranti miserie partigiane della cultura italiana.