Sono in molti a chiedersi che cosa stia succedendo in Santa Romana Chiesa: una Chiesa “a due velocità”? O addirittura una “Chiesa schizofrenica”? Che cosa significa che da una parte questo papa ci travolga con la sua iperattività addirittura promettendo – o minacciando? – un diaconato femminile, magari (magari?) presupposto di un sacerdozio femminile, redarguendo preti e vescovi per la loro mondanità e gli agi che alcuni di loro si permettono, visitando solo capitali extraeuropee, mentre dall’altra la Conferenza Episcopale Italiana sembra talvolta rispolverare i toni da Sant’Uffizio dell’era di Pio XII, interviene pesantemente nelle faccende politiche italiane, stigmatizza il parlamento per le scelte fatte in materia di unioni civili ma al tempo stesso – tramite il suo quotidiano – prende le distanze da ipotesi revanscistiche di referendum con ciò implicitamente ammettendo di temerne un risultato opposto alle sue speranze e alla sua linea e di essere quindi consapevole della sua debolezza?
Forse le cose parrebbero più chiare se non ci fermassimo all’attivismo pontificio e alle intemperanze dei vescovi, che sono solo dei sintomi, e cercassimo invece di cogliere la sostanza del problema. Che è quella del paradossale contrasto tra la straordinaria presenza mediatica e carismatica di un papa che aspira a una profonda riforma spirituale e anche strutturale della Chiesa da una parte e la realtà invece profonda di una comunità dei fedeli paurosamente indebolita e impoverita, la quale non si sente più in grado di sostenere il ruolo di coprotagonista della storia: ruolo al quale era da secoli abituata, nonostante il progressivo indebolimento dovuto all’avanzare del “processo di secolarizzazione” della nostra cultura.
“Quante divisioni ha il papa?”, chiedeva il generalissimo Stalin. E, da buon ex studente del collegio sacerdotale della sua Tbilisi, sapeva bene che le divisioni del papa non erano certo “corazzate” come le sue; eppure, non ne ignorava il formidabile potere.
Bene, quel potere oggi è infinitamente indebolito. La società dei consumi e dei profitti, il “mondo dell’Avere” (anziché dell’Essere) come lo definiva Eric Fromm, ha avuto la meglio nella civiltà occidentale: che è – non dimentichiamolo – quella alla quale appartengono tutti i ceti dirigenti e prominenti del mondo, anche nei paesi non “occidentali”. Oggi la massima parte degli stessi cattolici è costituita da “cattolici sociologici”, cioè da gente che magari – e sempre meno spesso – è anche battezzata o magari si sposa in Chiesa, ma nella quale la vita religiosa non ha più alcun peso pratico. Quando ero ragazzo, nel rossissimo quartiere di San Frediano della rossa Firenze degli Anni Quaranta-Cinquanta, la benedizione quaresimale delle case e della famiglie da parte dei parroci era un evento fondamentale dell’anno, al quale ci si preparava con cura e devozione; oggi questo mondo è ormai irrimediabilmente finito, la Chiesa parla e i cattolici non l’ascoltano. Lo aveva già detto con chiarezza mezzo secolo fa Paolo VI, accortosi che i cattolici (ormai sempre più spesso “cattolici sociologici”) non lo ascoltavano né sulla contraccezione, né sul divorzio (figurarsi sul precetto pasquale o sulla messa domenicale): non siamo più padroni della società, bisogna accettare di divenirne minoranza qualificata che ne sia coscienza, sale della terra… D’altronde, quella della CEI non è propriamente “ingerenza della Chiesa nelle questioni italiane”: le diocesi italiane sono costituite, dal vescovo all’ultimo credente, da cittadini appunto italiani, che hanno pur il diritto di dire la loro come ce l’hanno i componenti delle comunità cristiane riformate, gli ebrei, i musulmani, i buddhisti, i membri delle logge massoniche e gli atei. I vescovi italiani hanno ben il diritto di dire la loro in quanto italiani e organizzatori di altri italiani in comunità giuridicamente legittime: chiamare tutto ciò “ingerenza” è roba da anticlericali dell’Ottocento, roba da Circoli Giordano Bruno.
La debolezza della CEI
Ma che la crescente durezza degli appelli della CEI sia un sintomo di coscienza di debolezza, è un fatto. Tanto più che il capo della Chiesa cattolica sembra non curarsene. Quando Francesco dice che la Chiesa cattolica non desidera entrare nelle questioni politiche italiane non afferma che i cattolici italiani farebbero bene a non occuparsi di politica: vuole soltanto avvertire che la vera battaglia si svolge altrove, e che al confronto di essa non è poi così importante se la società civile italiana accetterà o no le coppie omosessuali (un tema sul quale il magistero cattolico è comunque inequivocabile). Il nucleo della questione di oggi è un altro: ed è la ragione per la quale papa Francesco visita le capitali extraeuropee e si astiene, per ora, dal misurarsi con quelle “occidentali”.
Questo papa parla in termini apocalittici e planetari. Per lui, il grande e principale problema dell’umanità è l’ingiustizia sociale che regna sovrana nel mondo e la nostra “cultura dell’indifferenza” che è incapace di scorgerla. Per questo egli va ripetendo che è necessario partire dalle periferie. Noi, abitanti dei “centri” occidentali in crisi quanto volete ma ancora relativamente ricchi e in qualche caso opulenti, siamo vittime di una pluridecennale illusione prospettica: in fondo, pensiamo che più o meno sia così dappertutto. Fino a qualche anno fa ci andavamo perfino ripetendo che tutto il mondo procedeva verso la pace: c’erano guerre dappertutto, dal Vietnam al Vicino Oriente all’America latina, ma nella nostra isola felice, l’eco delle esplosioni non arrivava. Oggi sappiamo che non è così: eppure, non abbiamo ancora capito come vive la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta e in fondo non ce ne importa, e secondo il papa la vera crisi della Chiesa cattolica sta in ciò, non nel fatto che la gente non vada più a messa o non ubbidisca alla CEI. Il Cristo sta ancora in croce ma nessuno gli fa più caso: e questo, il vecchio prete che viene dalle Villas Miseria non lo accetta, come non digerisce gli attici dei cardinali. Per questo continua a visitare le periferie: quando sarà il momento, e solo allora, aggredirà le capitali della “cultura dell’indifferenza”. Una battaglia perduta in partenza? Forse. Ma è la sua. Se non si capisce questo, è inutile chiedersi dove stia andando la Chiesa.