Qualcuno l’ha definito l’inviato ignoto. Si chiamava Almerigo Grilz, era triestino ed è morto il 19 maggio del 1987 a Caia, in Mozambico, colpito alla testa da un proiettile mentre filmava una battaglia tra l’esercito della Frelimo, già allora al potere a Maputo, e i guerriglieri della Renamo.
È stato il primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dopo la seconda guerra mondiale. A tutt’oggi resta, però, quello più ignorato, trascurato e dimenticato nella storia del giornalismo italiano. La sua unica colpa è stata quella di non aver mai rinnegato il proprio passato. Di esser diventato giornalista e reporter di guerra dopo esser stato il segretario del Fronte della Gioventù di Trieste e aver ricoperto incarichi nazionali nell’allora Movimento Sociale Italiano. Una colpa evidentemente molto grave visto che Ordine dei Giornalisti e Associazione della Stampa di Trieste, due organi a cui era regolarmente iscritto, continuano a considerare una sorta di sfregio la richiesta d’accogliere una lapide con il suo nome accanto a quelle, dedicate all’inviato Rai Marco Luchetta e agli operatori Alessandro Ota, Dario D’Angelo e Miran Hrovatin morti tra Bosnia e Somalia. Ma cos’ha fatto di così tremendo Almerigo Grilz rispetto ad altri illustri protagonisti del nostro giornalismo come Gad Lerner, Ezio Mauro, Paolo Mieli, Toni Capuozzo e Lucia Annunziata tutti transitati dalle formazioni dell’estrema sinistra a blasonate redazioni?
Semplice, l’inviato ignoto, come l’ha definito Capuozzo nella puntata di «Terra» dedicatagli nel ventesimo anniversario della morte, commise il fatale errore di affrontare la carriera giornalistica dopo aver abbandonato quella di dirigente giovanile del Movimento Sociale Italia. Con l’aggravante d’essere passato a miglior vita prima di transitare, assieme all’«amico» Gianfranco Fini ed un’intera classe dirigente, attraverso la purificatrice fonte di Fiuggi. E così quel mancato bagno alle terme gli ha lasciato incollato lo stigma del fascista anche dopo morto. Quello stigma ancora oggi lo condanna all’oblio e mette la sordina alla breve, ma folgorante carriera di un inviato italiano che raccontava le guerre dimenticate degli anni ’80 agli spettatori delle grandi reti americane, prime fra tutte la Nbc e la Cbs. Un inviato che scriveva correttamente in inglese e pubblicava i suoi reportage sul Sunday Times, su Der Spiegel e su altre autorevoli riviste europee. Ma in Italia tutto ciò poco conta. A tutt’oggi il primo caduto del giornalismo italiano resta, per molti colleghi, un illustre sconosciuto e nelle scuole di giornalismo non esiste un docente che osi pronunciare il suo nome. Ma l’aspetto più singolare di questo generalizzato, strumentale disinteresse per la vicenda umana e professionale di Almerigo Grilz è la sua estensione agli ambienti della politica e del giornalismo di destra. Gianfranco Fini che da giovane segretario nazionale del Fronte della Gioventù in trasferta a Trieste dormiva regolarmente nella cameretta di Almerigo si è ben guardato, anche quand’era presidente della Camera, dall’organizzare un convegno o un pubblico ricordo per quello che nella cerchia di partito continuava a definire un «amico».
E Alleanza Nazionale ligia alla tragicomica sudditanza culturale nei confronti della sinistra si è ben guardata, negli anni sfavillanti del potere, dal celebrare un ex dirigente che rappresentava un’icona dell’avventura e dell’informazione per una destra giovanile alla perenne ricerca di miti fondanti. Eppure nonostante amici e nemici abbiano tentato di seppellirlo una seconda volta il mito e il ricordo di Almerigo riaffiorano dall’oblio. Sempre più spesso giovani free lance o aspiranti reporter mi chiedono di raccontare loro la storia dell’amico Almerigo Grilz. Una storia semplice. La storia di un uomo che in una Trieste ai confini della «cortina di ferro» aveva trasformato uno stile di vita in passione politica. Un ragazzo che, unico nelle file di una destra sclerotizzata, comprendeva, già negli anni ’70, l’importanza dell’informazione e imbracciava macchine fotografiche e cineprese anche quando guidava cortei e manifestazioni. Un uomo che, non appena le piazze dei roventi anni ’70 smisero di regalare emozioni, abbandonò le stanze immalinconite della politica per trasferire lo stesso stile di vita sulle prime linee degli anni ’80. Perché se il giornalismo era la sua battaglia, l’avventura era la sua vita.
@barbadilloit