Don Mario Fangio, parroco di Carovilli (Isernia), ha suonato le campane a morto per celebrare il “funerale del matrimonio tradizionale” e per protestare contro la legge sulle unione civili.
Facile evocare – in questa occasione – l’immagine di Don Camillo, l’intramontabile personaggio, creato da Giovannino Guareschi, parroco di Brescello, anticomunista senza se e senza ma, storico avversario del sindaco falce e martello Giuseppe Bottazzi, detto Peppone. Don Camillo non avrebbe avuto problemi nel contestare la legge Cirinnà. Anche lui avrebbe suonato le campane e tuonato dal pulpito. Ma Peppone che cosa avrebbe detto? Come avrebbe giustificato, innanzitutto in famiglia e poi tra i suoi compagni, le scelte del Partito? Le risposte sono tutt’altro che scontate.
Per quanto “fedele alla linea”, Peppone non solo è credente, ma è anche figlio di un’Italia profonda, sanguigna e verace, autenticamente popolare, che lascia poco spazio al progressismo laico-borghese, oggi così di moda a sinistra. Non a caso – come ha ricordato Luciana Castellina, storica dirigente comunista e tra i fondatori de “il manifesto” – sul tema del divorzio la Direzione del Pci si spaccò in due: “Longo si schierò a favore dell’introduzione del divorzio, come pure Macaluso anche a nome delle donne siciliane “vedove bianche”, e chi si schierò contro furono Amendola e Pajetta”.
Peppone crede alla famiglia tradizionale. E’ sposato con Maria e ha cinque figli, tirati su a scoppole ed affetto verace, nel rispetto della solidarietà e dei vecchi legami paesani, del patriottismo nazionale e della generosità padana. Insomma una bella immagine nazional-popolare che cozza con i contorsionismi intellettuali e verbali della vecchia e nuova sinistra.
“Se io parlo come mi ha fatto mia madre capisco tutto quello che dico” – esclama Peppone, che, non a caso, con Don Camillo sa “dialogare”, senza, per questo, arrivare alla confusione dei linguaggi e delle idee, ma sempre salvaguardando quel “buon senso”, che ha rappresentato, nel corso dei decenni, l’idem sentire del popolo italiano, al di là delle fazioni, delle ideologie, dei partiti.
Sulla base di questo duro zoccolo ideale, il Pci di Peppone avrebbe considerato la legge Cirinnà come un esempio della decadenza borghese e non si sarebbe imbarcato nell’impresa, lasciandola magari – come è avvenuto per il divorzio e l’aborto – alle mosche cocchiere radical-socialiste, ai loro piccoli orizzonti individualistici.
Augusto Del Noce, mai abbastanza citato in occasioni come queste, ha scritto pagine esemplari sulle derive del comunismo e sulla nuova “cultura di massa”, sul nuovo materialismo che diventa “totale individualismo”, che ha ormai messo da parte l’ideale di classe, la rivoluzione proletaria, nel segno dei nuovi orizzonti piccolo-borghesi.
Da che parte sarebbe stato Peppone ? Come molti vecchi comunisti, avrebbe passato la mano al nuovo rampantismo renziano, cinico e formalista. Altro che “unioni civili”. “Il matrimonio – scriveva Guareschi – non è uno zabaione , nel quale si prendono le uova, si sbattono assieme e in dieci minuti tutto è fatto”. Peppone è della stessa pasta. Ha un cuore, che va ben oltre le linee di partito ed i codici. Come accade – ad esempio – con la maestra Cristina, la vecchia maestra monarchica, che, in punto di morte, tra le sue ultime volontà, affidate a Peppone e Don Camillo, chiede di essere portata al cimitero con la bara avvolta nel tricolore con lo stemma sabaudo. Malgrado la legge lo proibisca, il sindaco, sentito il parere negativo del consiglio comunale, a maggioranza comunista, fa di testa sua: “In qualità di sindaco – dice Peppone – vi ringrazio per la vostra collaborazione e come sindaco approvo il vostro parere di evitare la bandiera richiesta dalla defunta, però siccome in questo paese non comanda il sindaco ma comandano i comunisti, come capo dei comunisti vi dico che me ne infischio del vostro parere e che domani la signora Cristina andrà al cimitero con la bandiera che vuole lei perché rispetto più lei morta che voi tutti vivi”. Con lo stesso “buon senso”, difficilmente Peppone officerebbe i “nuovi matrimoni” targati Cirinnà, archiviandoli magari, da par suo, con un lapidario “Ma va a cagher!”.