L’ha scontata tutta, senza perdoni, Alex Schwazer, ed ha vinto. Si è ripulito e poi rimesso in marcia. Ha chiesto a Sandro Donati – uno dei maggiori nemici del doping, una specie di Zeman dell’atletica – di aiutarlo. Ha lasciato Calice, il suo paesino in Alto Adige, è sceso a Roma ed ha ritrovato se stesso, correndo la 50 chilometri di marcia nella capitale, e l’ha vinta con solo due minuti in più rispetto al tempo che lo aveva portato a vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino. In 3 ore e 39 minuti si è ripreso il suo corpo, la sua disciplina, la qualificazione per le Olimpiadi di Rio de Janeiro ed ha riguadagnato la dignità di campione. Ha marciato a testa alta contro tutti, con la diffidenza addosso. L’avevamo lasciato in lacrime e distrutto quasi quattro anni fa, era stato trovato positivo all’EPO (eritropoietina, un ormone che controlla la produzione di globuli rossi nel sangue) a cinque giorni dai giochi olimpici di Londra, e condannato a tre anni e nove mesi. Schwazer non si è lasciato né vincere né avvelenare, ha pagato, e anche se non riesce a dimenticare il dolore fatto (alla sua ex fidanzata la pattinatrice Carolina Kostner, ai suoi tifosi) e quello subito (che continua, Jared Tallent, marciatore australiano non gli crede, e Gianmarco Tamberi, saltatore in alto italiano ha scritto contro il ritorno alle gare di Alex). Che non capisca un australiano ci sta, ma che anche un italiano si unisca al coro contro Schwazer no, l’Italia è il paese di Cesare Beccaria e spesso lo dimentica, omette il suo pensiero, arrivando a tradire la propria storia. Chi ha scontato la propria pena ha diritto a una nuova occasione, a un nuovo credito, ad un riscatto. E Schwazer, abituato dalla marcia, non ha improvvisato vendette, non ha fatto proclami, se l’è sudata l’occasione, ha fatto i suoi cinquanta chilometri liberandosi, trasformandosi e tornando – si spera – al primo Schwazer. Si è redento, passando attraverso l’umiliazione, l’afflizione, la rinuncia; come prima si era tormentato inseguendo il doping, andando fino ad Antalya, in Turchia, per procurasi l’EPO. Da super controllato, da pulito, ora va più forte che da dopato, forse perché ha guadagnato la tranquillità, di chi può perdere, cadere, la solitudine della sconfitta che lo ha portato a immedesimarsi in Marco Pantani, cercando, però, un lieto fine, un riscatto, che gli ha regalato una marcia senza orologio, senza dover guardare gli altri ma solo se stesso.
Da traditore a redento la strada è stata lunga, da ossessionato ha dovuto ricostruire la propria testa d’atleta, ritrovando la giusta dimensione, dando valore ad ogni singolo momento. Si era perso Schwazer come è capitato a un mucchio di atleti, per motivi diversi: da Paolo Rossi – che finì nel calcioscommesse e poi vinse il mondiale dell’82 in Spagna – al ciclista Ivan Basso squalificato e poi tornato alla vittoria del Giro D’Italia; fino a Justin Gatlin campione olimpico nei cento metri ad Atene, positivo per testosterone, che dopo quattro anni si è ripreso il podio; l’elenco è lungo, e dice che si può fare: si può uscire dal doping e provare a riprendersi – con una doppia fatica – non solo la vittoria e il successo, le copertine e gli sponsor, ma soprattutto la dimensione bambina dello sport, quella che contempla il piacere di provarsi e provare. Battere i pregiudizi, obliare le bugie, riscrivere la propria biografia sportiva. La storia di Alex Schwazer è la prova che il riscatto e la fame di riprendersi la propria immagine sono più forti del doping. La sua marcia ha prodotto un nuovo esempio positivo, ri-aprendo una strada stretta e difficile ma percorribile anche da altri. (da Il Mattino)