In girum imus nocte et consumimur igni
Qualcuno certamente ricorderà la geniale parodia che Corrado Guzzanti dedicò alle televendite di quadri, all’interno della trasmissione Rai L’ottavo nano. In quei siparietti esilaranti veniva conferita pubblica notorietà ad un sottobosco di mercanti catodici, al sottomondo della sguaiata tv commerciale, quello delle piccole o medie reti private, talvolta ultra-locali. Regno virtuale di casalinghe e pensionati, quel bazar al confine – sovente superato – del cattivo gusto, trovò massima espressione negli anni ’90 del secolo scorso, grazie all’avventura imprenditoriale di Giorgio Corbelli. Nel 1982 nacque infatti Telemarket. Assorbendo varie emittenti locali, soprattutto bresciane, e fregiandosi del logo ultra-pop dell’elefantino verde, divenne per due decenni punto di riferimento alternativo all’intrattenimento di regime. Ora, qui non è intenzione dello scrivente ripercorrere le travagliate vicende, spesso lambite da provvedimenti giudiziari, della rete commerciale e della relativa gestione economica; materiale nazionalpopolare da segugi anti-truffa, come lo scandalo sui falsi dipinti, c’interessa ben poco; per chi possieda un minimo di nozionistica sulla Società dello spettacolo di debordiana memoria, risulterà ozioso ribadire il concetto che il “consumo spettacolare” si mercifica nel falso, nell’apparenza, nell’illusione a prescindere. “Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su sé stesso, il suo monologo elogiativo” e ciò vale a maggior ragione per i paladini catodici, tipo Le Iene e simili. Facendo un parallelismo con la radio: Cosa spinge un utente a sintonizzarsi su Radio Maria o Radio Radicale, piuttosto che su Radio Deejay o 105? Forse proprio quel verboso mantra annichilente, il punto di non ritorno della rappresentazione, il rifiuto della falsa spontaneità in favore di una spontanea falsità. In fondo è questa la vera ipocrisia della comunicazione di massa, l’abilità luciferina di scambiare contenuto e contenitore, mascherando l’imperativo commerciale totalizzante per qualcos’altro. Stesso ragionamento vale per la tv dell’elefante, ma senza infingimenti se non quelli ovvi: perdersi nei bizantinismi dei televenditori rappresenta forse un atto di ribellione passiva per misantropi (wu wei), il desiderio di cogliere il lato pornografico ed eccedente, che i palinsesti dei grandi network non potranno mai offrire se non venendo meno alla loro ragione stessa d’esistere. Tenteremo perciò di raccontare il fenomeno Telemarket privilegiandone il tratto antropologico e le derive parodistiche, tratteggiando una vicenda meno marginale di quello che può sembrare.
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The elephant men
Prendendo a pretesto il film del 1980 diretto da David Lynch, possiamo passare in rassegna i conduttori più popolari di Tele Elefante, riconducibili al periodo aureo dell’emittente. L’onore della prima menzione va a Gigi Montini, affabile e garbato venditore ligure, purtroppo scomparso nel 2000. Egli cederà l’eredità professionale, legata alle proposte d’arte astratta, al figlio Willy, altrettanto preparato ed accomodante. I suoi erano modi a tratti desueti, con quel “loro” rivolto al pubblico a fare da filo conduttore, mentre la telecamera inquadrava i vari Santomaso, Bueno, Schifano e soprattutto Scanavino, sempre trattati con particolare sussiego. Negli studi di moquette grigia, accanto ai dipinti ad olio, figurava anche tutta una tappezzeria di multipli; la grafica tirata in più esemplari era infatti il vero business della rete, ed i conduttori ponevano l’accento proprio sui bassi costi di firme importanti, accessibili anche ai meno facoltosi. Il gran maestro di queste operazioni fu senza dubbio il toscano Alessandro Orlando, impiegato nelle più disparate liquidazioni: quadri, sculture, argenterie, tappeti, mobili antichi. Egli, molto più aggressivo dei colleghi, impazziva letteralmente, avvicinando il volto butterato alla telecamera ben più del consentito. Una comunicazione certamente studiata, in grado di alternare enigmatici silenzi, soliloqui meditabondi dinnanzi alla scarsità di chiamate al centralino, ad un crescendo gesticolante di pathos fino alle reprimende più folleggianti dirette al distratto pubblico. Cazziatoni dispensati anche dall’esotico principe Bijan, venditore di tappeti iraniano, nostalgico dello scià di Persia; buffo personaggio da mille e una notte, in rapporto simbiotico con quelle montagne di stuoie, egli accarezzava i vari Tabriz, Isfahan, Herat e Bukhara, con la speranza spesso frustrata di generare empatia e di propiziare l’atteso annuncio di là dal vetro: “confermato”. Sempre nell’ambito degli estetismi più esilaranti, la palma del dandismo rococò, da mercante di Venezia, spetta senz’ombra di dubbio al teatrale Paolo Frattini. Capigliatura leonina canuta, tenuta da paggetto periodo Re Sole, Frattini sarà l’anfitrione del decorativismo più spinto, la polarità opposta del termine sobrietà applicata a mobili, gioielli, orologi. Eppure, a Telemarket, vi furono anche grandi divulgatori culturali, affabulatori certamente piegati dal compito becero della vendita, ma comunque in grado di raccontare le opere d’arte quando in tv non lo faceva nessuno. Pensiamo a grandi professionisti come Dario Olivi, Carlo Vanoni e soprattutto Francesco Boni, quest’ultimo senza dubbio il volto più noto. Romano, indubbiamente erudito in materia, Boni diverrà riconoscibile per l’eloquio salmodiante, cadenzato da reiterazioni retoriche, funzionale a prefigurare la bontà dell’investimento, in un imminente futuro.
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Il vostro salotto diventerà un grande protagonista del ‘900
Se l’autoironia è segno d’intelligenza, Francesco Boni ne dimostrò parecchia accettando l’invito per un siparietto ultra-situazionista proprio con l’imitatore Guzzanti, in occasione dell’uscita del film Fascisti su Marte. Maschera e volto resero quel cortocircuito memorabile, collocando per sempre il televenditore nell’immaginario collettivo. L’acume di Corrado Guzzanti, geniale nel trasporre i tic di un personaggio fino ad allora minore in caricatura popolare, si basava proprio sulla convinzione che quelle figure oranti non fossero poi così sconosciute al grande pubblico dotato di telecomando. Giunge in soccorso ancora Guy Debord, che ne La società dello spettacolo scrive: “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”, enunciato che si potrebbe tranquillamente ribaltare: Nel mondo realmente rovesciato, il falso è un momento del vero. Ed ecco quindi che la scimmiottatura di Teleproboscide, travalicando la persona fisica del venditore per affrontare con sarcasmo l’ossessione commerciale, andrà a squarciare il velo delle vergogne dell’arte contemporanea. Mutandari, Staccolanana, Fragolari, Tantanchilo, nomi di artisti fittizi utilizzati dal comico romano per simulare la televendita, finiranno in molti casi per sovrapporsi alla verità: giocando con le assonanze postmoderne, come nel caso del nascondismo, del riparismo o dell’infrangismo – balzane correnti espressive, lì solo per giustificare ready made improvvisati – e replicando ludicamente la dialettica astrusa dei critici d’arte. Il tutto risulterà quasi credibile, come in una doppia finzione che produce paradossalmente verità.
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Verosimiglianza che in qualche caso ha sfiorato il capolavoro dadaista, pensiamo al lavandino con presepe o ai quadri bianchi con la cifra da pagare, direttamente dipinta sopra: “il quadro rappresenta il suo prezzo”. Inarrivabile. Non avrebbero forse trovato degna collocazione a Kassel o a Venezia, confusi tra le brutture poveriste degli onanisti contemporanei? “Noi viviamo nella riproduzione indefinita di ideali, di fantasmi, di immagini, di segni, che sono ormai dietro di noi e che dobbiamo tuttavia riprodurre in una specie di indifferenza fatale”, sosteneva il filosofo francese Jean Baudrillard. Tanto vale riderne, quindi.
@barbadilloit