Nell’imperversare della guerra civile l’Eni si conferma la prima società per estrazioni petrolifere in Libia. Soprattutto in Tripolitania. A rivelarlo, come scrive Il Giornale, ci ha pensato Luca Longo, ricercatore ed esperto di energia, autore di un dossier che individua ed analizza tutti i pozzi petroliferi, gestiti da stranieri, attualmente presenti in Libia.
Dallo studio del ricercatore italiano è emerso che in Libia, fino a qualche tempo fa, erano presenti società petrolifere italiane, francesi, americane, canadesi, tedesche e russe. Tutte divise più o meno equamente tra Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. Poi la situazione politica in Libia è ulteriormente mutata, anche in seguito alla caduta di Gheddafi, quando si sperava in una effettiva stabilizzazione del Paese. Sfruttando, soprattutto, l’accordo delle Nazioni Unite, negoziato lo scorso dicembre in Marocco, con i due parlamenti di Tobruk e Tripoli. Ma le cose andarono come sperava l’Occidente. E ad oggi la maggior parte degli impianti sono fermi, o comunque estraggono molto meno petrolio rispetto al loro potenziale.
Attualmente, come spiega Longo, la produzione di petrolio libico ha subito un calo drastico: se prima della “rivoluzione” in tutto il Paese si estraevano circa 2 milioni di barili al giorno, ad oggi la produzione è ferma a 500 mila barili. E di questo mezzo milione di unità, il 70% proviene dagli impianti italiani dell’Eni. Soprattutto dagli stabilimenti off-shore di Bahr Essalam e Bouri, entrambi sotto la tutela della Marina Militare Italiana.
Roma, quindi, non sembra potersi lamentare della situazione libica. A differenza di Parigi. Perché la Total, presente soprattutto in Cirenaica e Fezzan, nell’ultimo periodo ha dovuto ridurre sensibilmente le proprie estrazioni. Ecco il motivo per il quale l’Eliseo spinge così tanto per entrare in guerra a fianco del Capo del Consiglio presidenziale libico Fayez Mustafa al-Sarraj. Il motivo è semplice: riportare in auge l’azienda petrolifera di Stato.
E nello sconfinato caos libico emerge un ulteriore paradosso. Uno dei tanti, in realtà. Perché durante una guerra civile che dura da cinque anni, passata dalle epurazioni anti-gheddafiane agli assedi dello Stato Islamico, la National oil company, società petrolifera di Stato nata sotto il regime, sembra sopravvivere. Un po’ per spirito di adattamento, un po’ dividendo gli utili per le centinaia di tribù attualmente presenti in Libia. Anche quello, però, significa fare business. In realtà, come spiega Longo su Il Giornale: “I terroristi del califfato non sono in grado di prendere stabilmente il controllo di pozzi, oleodotti, raffinerie o terminali petroliferi, ma a differenza di quanto avviene fra Iraq e Siria dove hanno il controllo dei pozzi e possono contare sull’alleanza clandestina con la Turchia il loro obiettivo in Libia è evidentemente quello di distruggere le infrastrutture che costituiscono la ricchezza del Paese per fare collassare entrambe le fazioni governative”.