“Ma i mortali credono che gli dei nascano
e che abbiano vesti, lingua e figura come loro.
Ma se i buoi e i cavalli e anche i leoni avessero mani,
e con le mani potessero dipingere e compiere le opere
che compiono gli uomini,
i cavalli dipingerebbero immagini di dei simili a cavalli,
e i buoi simili a buoi, e plasmerebbero i corpi degli dei
tali quali essi stessi hanno,
ciascuno secondo il proprio aspetto.
E gli Etiopi affermano che i loro dei sono camusi
e neri, e i Traci che hanno occhi azzurri e capelli rossi”
[Senofane, “Elegie”]
Come ogni 25 aprile, specie in tempi recenti, le cronache riportano un fiorire di episodi al limite del situazionismo: a Milano va in scena la consueta commedia degli equivoci tra esponenti di sinistra radicale filopalestinesi e sostenitori della “brigata partigiana ebraica” (reparto militare inquadrato nell’esercito britannico, operativo per pochissimi mesi alla fine del conflitto), impegnati a tirare la coperta dell’eredità storica della Resistenza italiana (1943-45) da un lato o dall’altro della barricata che divide i fronti sulla questione israelo-palestinese (1948-?). A Genova i “richiedenti asilo”, mobilitati dall’Arci, risistemano le tombe dei partigiani sepolti a Staglieno. A Torino un monumento intitolato ai medesimi partigiani è imbrattato dagli anarchici con scritte “in solidarietà con il popolo rom” contro gli sgomberi forzati dei campi.
È tutto un farsi e disfarsi di idoli a immagine e somiglianza dei propri creatori, come i simulacri equini di Senofane: partigiani antesignani d’Israele, partigiani antisionisti, partigiani per i diritti dei rom, fino all’inversione grottesca del partigiano migrante, perché oggi i fascismi sono “i nuovi muri” e i crimini nazisti “gli olocausti del mare”. Pazienza se così si arriva a rovesciare il partigiano, che è come Schmitt insegna la figura del combattente politico per antonomasia, nella sua negazione antropologica e cioè il fuggitivo, il quale – “buono” o “cattivo” che lo si voglia – resta comunque colui che antepone la salvezza individuale all’insurrezione in armi contro l’oppressore.
L’equivoco di fondo nasce dall’indisponibilità, ribadita perfino dal placido Mattarella col suo “è sempre tempo di Resistenza”, a storicizzare davvero il mito fondativo della Repubblica. Se non si arriva ad affermare il carattere storicamente compiuto della guerra civile del 1943-45, vi si troverà sempre qualche vittoria mutilata da vendicare. Col risultato di attribuire ai combattenti di allora una varietà di opinioni che neanche sospettavano di avere su una gamma infinita di temi d’attualità, nati e cresciuti ampiamente dopo la loro morte e l’esaurimento dei loro ideali politici (dal socialcomunismo all’azionismo alla fede monarchica degli “autonomi”).
Gli uomini, dice un proverbio arabo, sono figli dei loro tempi prima che delle loro idee. Chi pensa che gli uomini d’altri tempi non siano morti invano farebbe bene a ricordarsene.