La prima lezione che viene dal caso Regeni è che le autorità italiane non devono cadere nella trappola dell’intrigo, delle spiegazioni contorte, dei sussurri e delle grida anonime che provengono dal Cairo. I complotti sulle rive del Nilo che possono esserci all’interno di polizia e servizi segreti ci riguardano solo in parte, possono essere anche all’origine della morte di Regeni ma finora non spiegano né tanto meno giustificano nulla. E una luce ancora più fosca su questo governo egiziano è venuta dalla vicenda dei cinque banditi uccisi, presentati come responsabili dell’assassinio e già passati negli archivi della spazzatura del regime perché era l’ennesimo depistaggio.
La pista della banda criminale, sia pure poi tardivamente smentita dal Cairo, è stato un grave tentativo di accreditare una verità di comodo.
Sono questi giorni carichi di ambiguità, di annunci, di scoop che galleggiano nell’aria e poi svaniscono come bolle di sapone: per questo gli incontri tra la procura di Roma e la delegazione egiziana sono fondamentali. È qui che capiremo non la verità sul caso di Giulio Regeni ma almeno sarà chiaro se le autorità egiziane intendono davvero collaborare con quelle italiane per scoprire cosa è accaduto. Significa, come ha sottolineato anche il ministro degli Esteri Gentiloni, acquisire documenti mancanti, non accreditare verità distorte e di comodo, offrire alla magistratura italiana tutti gli elementi per tracciare i movimenti e gli incontri di Giulio Regeni fino al momento della sua scomparsa. Insomma capire chi ha ammazzato il giovane ricercatore.
Se davvero l’Egitto vuole continuare ad avere rapporti anche ufficiali con l’Italia deve mostrare questa volontà di collaborare. Il generale Al Sisi finora si è mosso con astuzia lasciando credere nelle dichiarazioni alla stampa italiana che il caso Regeni nasconda una sorta di complotto per far saltare le relazioni tra i due Paesi e i mega-contratti dell’Eni nel settore del gas. Peccato che come i suoi poliziotti non abbia portato, molte settimane dopo la morte di Regeni, lo straccio di una prova che avvalori questa tesi. Ma il solo fatto che abbia avanzato un’ipotesi simile, forse accettabile da un giornalista investigativo ma non da un capo di stato, deve far dubitare del suo standard di governo nell’applicare anche le leggi più elementari, che è assai basso, come dimostrano le centinaia, forse migliaia di persone scomparse e torturate nell’ultimo anno.
In Egitto si commettono crimini puniti dalle leggi e dalle sanzioni internazionali. La tortura è un crimine contro l’umanità che va al cuore del rapporto tra lo Stato e i cittadini. Come il genocidio e i crimini di guerra è tra i delitti che possono essere giudicati dalla Corte penale internazionale. Se è vero che i raìs come Al Sisi sono abituati ad auto-celebrarsi e ad auto-assolversi forse è il caso di informare il generale che in Europa si usa diversamente.
Quanto agli affari, assai rilevanti, con l’Egitto, è doverosa una riflessione. La politica viene prima degli affari anche nelle relazioni internazionali e per avere buoni affari serve una buona politica. Non si preservano davvero gli interessi economici se si cede su questioni basilari come il caso Regeni. Non è solo questione di nazionalismo, dignità e onore offeso: capitolare a un ignobile ricatto nel lungo periodo non salva nessun affare. (Sole24Ore)