L’ascesa della mezzaluna sciita è al cuore del conflitto tra iraniani e sauditi che ormai minacciano di colpirsi a vicenda. La rivalità tra Iran e Arabia Saudita non finisce certo a Doha: questo è oggi il fattore più destabilizzante del Medio Oriente ed è destinato a continuare oltre la guerra del petrolio iniziata dai sauditi nel 2014 per indebolire Teheran con la sovrapproduzione e il calo dei prezzi. Le tensioni sono destinate a ripercuotersi in Siria, in Iraq, in Libano e nello Yemen, dove sauditi e iraniani si affrontano in sanguinose guerre per procura.
Lo scontro, cominciato con lo scisma tra sciiti e sunniti originato della battaglia di Kerbala nel 680, risale in tempi più recenti al 1979, anno della rivoluzione iraniana che con l’Imam Khomeini non solo spazzò via l’effimero impero dello Shah ma fece tremare anche le monarchie assolute del Golfo. Per contrastare la repubblica islamica, l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo finanziarono la guerra di Saddam Hussein contro l’Iran: 50-60 miliardi di dollari vennero inutilmente bruciati nelle paludi dello Shatt el Arab insieme a un milione di morti. Teheran per quella guerra durata otto anni non ha mai perdonato i sauditi: era questa un’altra puntata del secolare conflitto tra arabi e persiani.
Lo scontro è una rivalità di potenza per il controllo del Golfo ma è anche ideologico-religioso per l’influenza nel mondo musulmano. Con la sua teocrazia Khomeini ha realizzato una repubblica dove sia pure in modo assai controllato e manovrato dall’alto si svolgono elezioni da 37 anni mentre l’Arabia Saudita è una monarchia in pugno a una dinastia familiare con cinquemila prìncipi del sangue che rivendica il titolo di Custode della Mecca e della Medina. I due sistemi sono antitetici e per gli sciiti il fondamentalismo wahabita è diventato un termine usato come insulto: “tafkiri” per Teheran sono i sauditi ma anche i jihadisti dell’Isis. A loro volta i sauditi sono soliti denigrare gli sciiti come miscredenti. La scontro ha quindi assunto una connotazione marcatamente settaria che ovviamente non facilita gli accordi.
Dopo la guerra del Golfo per l’occupazione del Kuwait, i rapporti tra i due Paesi erano migliorati durante la presidenza di Rafsanjani ma le tensioni sono riesplose con la caduta di Saddam nel 2003 e l’occupazione americana dell’Iraq. Questo è stato vissuto dai sauditi come il primo tradimento degli americani che hanno assegnato il potere alla maggioranza sciita emarginando i sunniti che prima controllavano la Mesopotamia ed enormi risorse energetiche. È stato così che l’Iran ha esteso la sua influenza tra gli sciiti dell’Iraq mettendo in agitazione i sauditi e il fronte sunnita che hanno sostenuto al Qaeda, il Califfato, Jabat Al Nusra e altri gruppi jihadisti in funzione antri-iraniana e anti-Assad.
L’idea dei sauditi era quella di spezzare l’alleanza sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi: un asse strategico che dall’arco del Golfo, attraverso la Mesopotamia, arriva fino al Mediterraneo.
La guerra in Siria e la campagna saudita in Yemen contro gli Houti sciiti sono gli ultimi due capitoli del faccia a faccia tra iraniani e sauditi. In Siria l’Iran vuole mantenere al potere Assad e ora, dopo l’intervento militare della Russia, ha accentuato la sua presenza con l’esercito regolare e i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione. Riad continua a insistere perché Assad venga sbalzato dal potere ma di fatto, insieme alla Turchia e la fronte sunnita, sta perdendo questa guerra mentre non riesce a vincere neppure quella nel «cortile di casa», in Yemen, una sorta di Vietnam arabo.
L’umore nero di sauditi è diventato plumbeo con l’accordo del luglio scorso sul nucleare iraniano: Riad lo ha considerato un secondo tradimento degli Stati Uniti. Per questo lo scontro sulle quote petrolifere si è fatto ancora più acceso: vincerà non solo chi ha più risorse, tenuta e alleati ma chi saprà attuare la strategia più sofisticata e lungimirante. (Dal Sole24Ore)