Esiste un punto esatto nel tempo, dentro il quale la bellezza viene inghiottita in un vortice di dubbi. Da fede cieca si fa chimera di una ricerca disperata. Dapprima è presenza percettibile nell’esplosione gioiosa di un atto. Nella traiettoria incerta di un gesso sull’asfalto, nel segno che traccia i confini di un gioco con un nome altisonante: la campana. Una tribù di impavidi ragazzini, conferendo potere a un ciottolo, si affrontano a colpi di salti. In un unico gesto, il disegno del tracciato passa dalla campana al sorriso. È presenza silente nell’arcadico scambio di biglietti: tra le righe il primo assordante “mi piaci”. È l’aura del primo bacio, quello provato e riprovato per giorni su tutta la pazienza accogliente di una mano. Un cappotto di imbarazzo in attesa della seconda effusione.
Accade la bellezza nella speranza e nel perpetuo incanto che sino alla bassa stagione dell’adolescenza, non si fa mai disincanto. È liturgia vissuta nella piena fiducia, in nome di un Dio trovato senza alcuna ricerca. È nella voce innocente di tutte le cose: nei racconti sulla guerra di uno zio gigante, nella fumante cucina regionale della nonna e in quel sacchetto pieno di cancelleria profumata e colorata, afferrata con le prime monete. È nelle corse sfrenate verso le ginocchia sbucciate, alla rinfusa riparate per un nuovo inizio. Cicatrici come stampi lenitivi per il sorriso adulto. È nelle prime feste in casa a base di dolcetti, pizzette e quella confezione di cola prontamente svuotata per il gioco della bottiglia: bacerai tutti, tranne il tuo oggetto del desiderio. Sarai felice lo stesso. Nel primo vestitino a pieghette, acquistato proprio per l’occasione. Nell’illusione che quel velo di burrocacao, steso sulle giovani labbra, sortirà lo stesso effetto di un rosso Chanel. È in quello sbarrare gli occhi di fronte al mondo. Nell’occhieggiare maldestro e timido a quel bambino, certamente il figlio di James Dean, conosciuto al mare durante una partita a bigliardino. Nel rivederlo il giorno dopo e quello dopo ancora, sino all’agognato bacetto, quello a stampo, atteso tutta l’estate e accaduto puntualmente l’ultimissimo giorno di vacanza.
Accade la bellezza nel possedere il primo animale domestico, mortificato da un improbabile nome che lui dimentica quando si perde nei tuoi occhi. Nell’assistere con meraviglia a quel miracolo del parto: l’animale peloso si moltiplica in tanti altri improbabili nomi, che naturalmente, per la gioia dei genitori, terrai tutti indistintamente. Nel costruire capanne pericolanti dove rifugiarsi, non al riparo da qualcosa, ma in nome di una magia: la prima proprietà privata nata dal lavoro delle proprie mani, la custodia esclusiva di uno spazio segreto. È nelle gite scolastiche di una città che non conquista, ma nel ricordo si fa meravigliosa quanto il repertorio musicale cantato a squarciagola sul pullman. È in un prato di campagna occupato dal rudere di un casale, dove furtivamente si accede, nell’esplosione di una fantasia debordante: storie di fantasmi prendono vita in noi e nel casale. È nel primo film al cinema, nella prima scarpetta rialzata di due soli fondamentalissimi centimetri. Nel primo bikini, quello completo con tanto di sfoggio di un triangolino completamente vuoto.
Accade la bellezza nello sguardo che si riserva ai genitori, due supereroi bellissimi e invincibili, giunti sulla terra solo per proteggerti, in quel per sempre così difficile da pronunciare: per sempre! Capita così la fede cieca nella bellezza: la presenza che non cerchi, ma ritrovi in tutte le manifestazioni fanciullesche. Poi giunge un punto esatto nel tempo dove lei si fa lontana, remota, nascosta. Prende il suo posto una consapevolezza: il dovere di trattenerla. La fede si fa flebile perché a quel bacio forse non ne seguirà un secondo. Perché quel primo animale domestico dovrai scortarlo sull’arcobaleno alla fine dei suoi giorni, nella scoperta di un’ineluttabilità che abbraccia tutti indistintamente. Perché quel bikini non è più tanto speciale. Perché quel burrocacao, che si è fatto rossetto scintillante, non muove gli stessi effetti. Perché al posto del rudere del casale e di tutti i fantasmi che lo abitano, oggi c’è un alveare di cemento. Perché il pullman non passa e non cantiamo più tutti assieme la melodia di quell’elefante che si dondolava sopra il filo di una ragnatela.
E allora sull’incanto di una reviviscenza è cruciale la dura lotta al disincanto. Disillusione, che in tutta la sua potenza distruttrice, si stanzia nei posti lasciati vuoti dalla bellezza. Lanciare il cuore e lo sguardo sotto, sopra, intorno alla superficie delle cose per ritrovarne lentamente i primi granelli. Il primo chicco in una melodia che risuona in un aggeggio. Un quadratino inserito in un altro quadratino di un’automobile, emette melodie sull’asfalto di una strada assolata o in una romantica notte di pioggia. Un granello in una lettera progettata da mesi e poi finalmente spedita. Un granello nella voce di un fratello che davanti al tuo ennesimo fallimento sentimentale, sdrammatizza il tutto con la frase dell’occasione: “Cosa importa se non ascolta Janis Joplin, l’importante è che sia un bravo ragazzo!”. E in quella battuta c’è il granello più importante: l’ironia salvifica tesa a strappare il sorriso. La formula magica che scaccia via l’ultima lacrima, il sorriso su quell’errare dell’impeto che proprio non riesce a correggersi. Un granello ancora nelle riunioni con le amiche di sempre, a suon di strampalate teorie filosofiche che finiranno tutte nell’oscillazione tra un irremovibile “non lo chiamo più” e un coraggioso “va beh, magari un messaggino…”.
Da grandi la bellezza si fa grande e come tale inafferrabile. L’impossibilità di sintetizzarla in un siero salvavita, la difficoltà di rinchiuderla nella scatola dell’infanzia e la vita che accade indipendentemente fuori dai venti incantati, generano resistenze e scivoloni. La bellezza pone trappole, prove di coraggio e nostalgia di fede. Non è più presenza costante nel cielo come nella stagione dell’infanzia, ma si fa altalena del tempo in stagioni che fluttuano nell’incertezza. È nel barcollo confuso di un percorso di vita che tra fulminee cadute e flemmatiche risalite, ogni granello si fa spinta e forza nell’accorpare ancora un piccolo bagaglio di grazia. È il mancare all’appuntamento nichilista, il tenersi lontano dallo sconforto fatto stile, evitare la via più semplice del nulla che si traveste da tutto.
Accade la bellezza. Come un sentimento, si indossa diversamente allo scadere di ogni stagione. Nelle pieghe di una gonna scesa sotto le ginocchia, nel rossetto sbafato, nel vento che muove capelli pitturati a festa, nelle fossette fatte rughe, nella melodia e nel rumore, accade la bellezza. Accade nella fede cieca del continuare a credere, nonostante alcun messaggero abbia mai donato l’indicazione più importante: la bellezza è silenziosa.