Raramente siamo d’accordo con Mario Draghi, il presidente della Bce. Questa volta però le sue parole, pronunciate a Lisbona, nella sala del Consiglio di Stato portoghese, sulla “lost generation” (generazione perduta) hanno il sapore dell’inusualità e per questo vanno valutate con la dovuta attenzione. Messo da parte il monetarismo e gli angusti ambiti del tecnicismo economico-finanziario, le dichiarazioni del presidente della Bce sembrano essere finalmente all’altezza della gravità del momento non solo per la denuncia, che egli ha fatto, del pericolo di nuovi shock per l’Eurozona, quanto per avere evidenziato che il rischio di una disoccupazione strutturale stia ponendo le basi per una “lost generation”(generazione perduta) tra i giovani in cerca di impiego.
L’allarme è grave: “Nonostante siano la generazione meglio istruita di sempre – ha detto Draghi – i giovani di oggi stanno pagando un prezzo molto alto per la crisi” e questo “mette seriamente a rischio l’economia, perché a queste persone che vogliono lavorare ma non possono farlo viene impedito di sviluppare le loro capacità”, dobbiamo “agire in fretta per evitare di creare una ‘generazione perduta’”.
Draghi ha ragione. Dati alla mano la disoccupazione giovanile resta elevata in Europa nonostante la messa a punto del programma Garanzia Giovani, volto a incentivare le assunzioni dei nuovi lavoratori. In particolare per tutto il sud Europa. I Paesi con la più alta disoccupazione giovanile sono infatti la Spagna (45,3%), il Portogallo (30%), la Grecia (50%) e l’ Italia (40%). In questi Paesi, con questi numeri, difficilmente viene da pensare che la generazione attuale sia ancora salvabile.
Per questo molti giovani preferiscono emigrare all’estero in cerca di opportunità lavorative, abbandonando i Paesi d’origine. Quelle che vengono banalmente considerate delle opportunità, offerte dalla nuova economia della globalizzazione, rischiano di trasformarsi in un grave pericolo sia per le giovani generazioni (sradicate dai rispettivi Paesi, che su di loro hanno investito) sia per i Paesi costretti a subire la loro immigrazione.
Guardiamo all’Italia, ma il discorso riguarda tutta l’area mediterranea dell’Europa. Secondo l’ICOM, l’Istituto per la competitività, la fuga dei cervelli, negli ultimi vent’anni, è costata al nostro Paese più di 4 miliardi di Euro (sommando il ricavato dal deposito di 155 domande di brevetto, proposte da uno dei ricercatori italiani della Top 20 di Via-Academy, e altri 301 brevetti nelle cui equipe di ricerca comparivano scienziati emigrati).
Il problema non è solo di costi economici. Se viene meno una generazione, a rompersi è un importante anello della filiera nazionale: quello che, proprio per una questione anagrafica, ha una maggiore energia spirituale, una più forte capacità innovativa, una spinta dinamica, una predisposizione alla sfida. Se perdiamo una generazione, a rischiare sarà tutto il Sistema-Paese che si vedrà privato di una parte essenziale della sua classe dirigente e che dovrà, sempre di più, fare i conti con il suo invecchiamento. Se si rompe la staffetta generazionale il rischio è la senescenza diffusa, il “limbo italico” – denunciato, qualche mese fa, dal Censis.
Non possiamo evidentemente permettercelo. Ed allora, magari sulla scia dell’inusuale denuncia di Draghi, la questione deve essere posta al vertice delle priorità nazionali, con interventi organici, con chiare indicazioni di priorità, con investimenti adeguati. A rischiare di diventare “lost” sono tutti gli italiani, giovani e meno giovani, con buona pace per la politica dello struzzo, così cara all’attuale maggioranza di governo.