In Yemen i sauditi hanno ingaggiato contro gli Houti sciiti una guerra che ha già fatto migliaia di morti: ci sono attentati dell’Isis, c’è al-Qaeda, che fino a qualche tempo fa era un bersaglio dei droni americani e ora controlla l’Hadramaut e il porto di Mukalla, c’è soprattutto una popolazione allo stremo con migliaia di profughi. Eppure questa sorta di Vietnam arabo è menzionato solo di sfuggita. Washington l’anno scorso ha detto: ci pensano i sauditi. Ma vi fidereste di uno Stato che provoca enormi tensioni nel Golfo con l’Iran sciita e da cui provengono i finanziamenti agli imam più radicali dell’Islam? È questa la geopolitica del caos.
Ovunque si volga lo sguardo ci circonda un disordine mondiale che però trattiamo in maniera selettiva. Se a produrlo sono i nostri clienti allora si chiude un occhio: dopo tutto la penisola arabica è il cortile di casa di monarchie petrolifere che hanno il buon gusto di investire nelle nostra finanza. È con questa logica che siamo arrivati ad avere la guerra in casa: la stessa logica perversa che scatenò l’11 settembre 2001.
L’Isis nel 2014 non suscitava alcun interesse negli Stati Uniti: Obama, che oggi chiama alla mobilitazione contro i jihadisti con ambizioni atomiche, definì lo Stato islamico un competitore dilettante di al-Qaeda. Dobbiamo aspettarci altri dilettanti allo sbaraglio?
Si parla tanto di intelligence, ma proprio gli americani sono stati protagonisti del più devastante fallimento dei servizi degli ultimi decenni: mai erano stati bombardati in casa, e ci è riuscito Osama bin Laden la cui famiglia andava a pranzo con i presidenti e che abitava indisturbato in Pakistan, Paese alleato, compiacente con cellule terroristiche che fanno stragi di musulmani e cristiani, dotato pure di armi nucleari di nuova generazione. Ma gli Stati Uniti hanno la Cia, l’Fbi, controllano il traffico mondiale delle comunicazioni e dal tavolo della loro rete fanno cadere agli alleati soltanto briciole di informazioni: quel che basta per tenerli a guinzaglio.
Siamo tutti alleati qui in Occidente, ma definirci amici a volte è un po’ azzardato. In compenso siamo sicuramente concorrenti, al punto che in ogni vicenda oscura, a torto o a ragione, vediamo sullo sfondo, nell’ombra, l’artiglio di interessi economici inconfessabili: non è così anche per il caso Regeni?
Prendiamo l’apertura a Teheran, dove sta per andare in missione il presidente del Consiglio: gli Usa vogliono vendere i Boeing e hanno già pronte tutte le triangolazioni finanziare necessarie, ma un’azienda italiana o europea deve stare molto attenta, se non vuole incappare nelle sanzioni Usa, a esportare qualunque prodotto che abbia un contenuto di tecnologia Usa superiore al 25 per cento.
In Iraq – 12 anni di embargo – inglesi e americani avevano un ufficio per controllare l’export “dual use” (militare e civile): monitoravano con un sistema da incubo tutto quello che entrava, un po’ meno quello che usciva, petrolio di contrabbando che ingrassava il curdo Barzani, la Turchia e i dealer del Golfo. Come poi è accaduto anche con l’Isis. Ma anche questo non bastava: nel 2003 Bush jr. e Blair decisero di mettere le mani direttamente sul Paese scoperchiando un vaso di Pandora che non hanno mai richiuso.
Per noi l’Iran, Paese discretamente stabile anche se implicato nel marasma mediorientale, è una cosa seria. Le commesse degli ayatollah, buoni pagatori, devono coprire la perdita di altri mercati, come la Libia e in prospettiva forse anche l’Egitto. Anche l’Italia ha un cortile di casa, ma gli alleati ci fanno spostare continuamente di posto come nel gioco dei quattro cantoni, un giorno in Iran, un altro in Libia. Meno male che siamo ragazzi svelti, se non proprio svegli.
L’intelligence europea
L’intelligence europea fa acqua e quella belga viene sbeffeggiata in barzellette da humor nero. Ma ha perfettamente ragione Emma Bonino quando dice che se nell’integrazione europea la sicurezza è rimasta esclusiva competenza nazionale, per rimediare bisognerebbe rivedere i Trattati, e invece gli Stati dell’Unione si illudono che chiudere le frontiere risolva il problema. È assolutamente stucchevole immaginare un’intelligence europea senza una politica estera e di difesa e sicurezza comuni. Quindi finché non avverrà sarà inutile paragonarsi agli Stati Uniti e dire «siamo in guerra»: siamo chi, visto tra l’altro che le forze armate non sono più di leva ma professionisti che guardano anche loro ai bilanci? Siamo vittime, questo sì, ma non combattenti.
Sono gli Usa che dettano le regole della guerra al terrorismo, non il Califfato, e lo fanno in funzione dei loro interessi che possono coincidere con i nostri ma non sempre. Gli europei continentali hanno una colpa grave: sperano che siano gli altri a occuparsi dei loro guai. Scaricano i profughi a Erdogan e nella guerra all’Isis, dopo avere architettato per anni la caduta del regime di Damasco, si affidano a Putin e Assad, due leader sotto sanzioni. E quando intervengono provocano danni massicci come in Libia nel 2011. Nello specchio deformante che riflette il caos europeo possiamo vedere il nostro disordine politico, l’egoismo nazionale, gli inconfessabili interessi che assegnano medaglie al valore, i fallimenti dell’intelligence e persino i volti sfocati, colti dall’obiettivo delle telecamere, dei jihadisti di casa nostra.