Citammo dieci film recenti, indipendenti e non americani, nel precedente appuntamento con Artefatti. Fu occasione per sbeffeggiare il disimpegno generalizzato, che vede nella multisala apogeo per depensanti, alienante non-luogo idoneo al coito post playstation di ludopatici in bambagia. A voler completare l’operazione, sarà d’uopo prendere in esame un periodo alquanto diverso, il tempo in cui ci si dava tono da intellettuali, frequentando in sparuti gruppi, polverosi cinematografi d’essai. Tempi di tondi occhialetti gramsciani e barbe lunghe, tempi di noiosa autoreferenzialità, come ben narrato da Nanni Moretti nel suo primo film Io sono un autarchico. “Il dibattito no!” esclamava stremato un astante, intendendo che un po’ tutti ci si era rotti i coglioni dinnanzi alla pellicola concettuale ed ancor più temendo il pippotto socio-politico seguente. Difatti poi, nel segreto (dell’urna DC) della cameretta, spopolavano Alvaro Vitali ed Edwige Fenech, o nel migliore dei casi Sergio Leone, giammai quei pallosissimi esistenzialismi in lingua originale – russa magari – con sottotitoli. Pecorume speculare all’odierno, si dirà, con l’unica differenza che, attualmente, è caduta l’ipocrisia del voler apparire più colti di quello che si è. Fino ad esagerare nel contrario, forse. D’altronde, in un’epoca in cui si scattano foto al piatto con sushi cinese, al gatto siamese o a sé stessi in mutande, che altro si può pretendere dal cinema? La realtà è obsoleta già dopo qualche minuto a discapito dell’ingegno. Dicono: “è quello che vuole il mercato, è quello che vuole la gente”, a giustificazione dell’appiattimento verso il basso. D’altronde, si badi alla fine che hanno fatto quei “rivoluzionari da passeggio”, per lo più sistemati come opinionisti nei reality, oppure impegnati a raccogliere penne nel pollaio, allo scopo di arabescare nel vuoto – pensiamo a Mariarosa Mancuso, critico de Il Foglio, che con l’intento pregiudiziale di voler rigettare lo snobismo intellò, finisce col dispensare medaglie ai colossal strisciastellati più pacchiani – forse per assaporare il brivido del tradimento riguardo al proprio passato, forse perché il ridicolo esito della pseudo-rivoluzione sessantottina non ha prodotto altro che il perpetuarsi dell’asservimento, generando di fatto nuovi vincolanti parametri, stavolta mercantili. Ma sempre in ginocchio davanti allo Zeitgeist, ci si raccomanda, fosse pure sterco in pixel digitale. Sarà un problema del progressismo? Allora tutti in kefiah contro l’imperialismo, oggi in cravatta come manager di partito. Sicché, riesumeremo in questa sede dieci pellicole sulle quali aleggia la muffa del tempo – nonché il sospetto di pesatezza gettata come zavorra dal vascello riformista – al solo scopo di lodarne l’indiscutibile valore artistico, mentre “loro” staranno cercando le parole giuste per rivalutare Massimo Boldi, via Quentin Tarantino ovviamente.
- Il posto delle fragole, Ingmar Bergman (1957)
Il B/N sempre un po’ inquietante di Bergman, s’aggiusta qui in favore di una narrazione semplice, evitando certe pesantezze psicologiche che graveranno su altre prove del sommo regista svedese. Il posto delle fragole altro non è se non l’introspezione mnemonica, subita dal vecchio e burbero protagonista, che deraglia nell’onirico, alterando così gli schematici vincoli del tempo. Come Segnavia heideggeriano, il film propone una narrazione esistenzialista ed interrogativa, mantenendo credibilmente la rotta degli eventi in equilibrio tra allucinazione realistica e realtà illusoria. Le faccende minute, in fondo null’altro che un viaggio in macchina per il ritiro di un premio, diventano pretesto per una rilettura simbolista e fatale del vissuto. Trasfigurando elegantemente il passato in amaro rimpianto, nel pesante fardello dei ricordi giovanili quando la vita volge al termine, Bergman crea un capolavoro proprio grazie ad un formalismo narrativo apparentemente rassicurante. Nei panni della nuora, compagna di viaggio dell’anziano medico, la splendida Ingrid Thulin.
- L’anno scorso a Marienbad, Alain Resnais (1961)
Talvolta replicato su Rete 4, ovviamente nel cuore della notte, il film di Resnais ha sovente rischiato l’imperituro appellativo di “cagata pazzesca”. Una villa stile Versailles, specchi e statue, decori barocchi fino all’eccesso del vacuo lusso ed ospiti elegantissimi deambulanti senza un perché, soliloqui pretenziosi come ulteriore aggravio, pose artificiose come in una foto di Helmut Newton. Potremmo chiudere qui – tutt’al più ammirando un giovanissimo Giorgio Albertazzi ed il gioco dei fiammiferi, raro momento di empatia con lo spettatore – relegando la pellicola nella velleitaria supponenza tutta francese. Rivisto oggi, il film acquisisce nuove sadiche sfumature, manifestandosi come iperbole dell’estetismo nonsense. Bellissimo, vuoto e incomprensibile, L’anno scorso a Marienbad rinuncia non solo al messaggio, ma pure a qualsiasi costruzione logica riconducibile a quel vecchio termine chiamato trama, per abbandonarsi al puro decoro. Per contrappasso, a fronte dello stucchevole barocchismo imbastito da Resnais, potremmo azzardare un monito all’impavido spettatore: ora sono cazzi tuoi.
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- Il portiere di notte, Liliana Cavani (1973)
Nell’atmosfera decadente viennese, una congrega di SS vive in incognito dopo la fine della seconda guerra mondiale, trafficando per cercare di eliminare le tracce dell’ingombrante passato. Tra loro Max, enigmatico portiere d’albergo dai modi affettati, che sul posto di lavoro rivedrà casualmente Lucia, ebrea con la quale ebbe un rapporto morboso ai tempi dei ruoli invertiti, quando lei era vittima e lui carnefice. Film dai connotati scabrosi e S/M, si fa apprezzare per il giganteggiare dei protagonisti – Dirk Bogarde e Charlotte Rampling – nulla meno che straordinari, nonché per il sordido affresco dei flashback nazi. Liliana Cavani, dirige qui il suo lungometraggio più pericoloso, anteponendo alla morale storica e alle scappatoie possibili, il forte legame tra i due, fondato sul proibitivo bisogno reciproco e sulla perversione di un amore impossibile. L’epilogo kafkiano, tragico e glaciale, contribuisce a caratterizzare il film come ambiguo ed inquietante, sorta di ferita lasciata aperta quando sarebbe risultato più comodo cicatrizzare a casaccio con vittime e colpevoli.
- Salon Kitty, Tinto Brass (1975)
Prima dell’ossessione per il culo femminile, Tinto Brass fu uno stimato regista sperimentale, status che tuttavia sacrificò senza troppi indugi in favore di un erotismo anarcoide, al limite del pecoreccio. Proprio al crocevia tra cinema d’autore e serialità da boudoir o bar sport, c’è questo Salon Kitty, dove il regista milanese riesce a rendere ancora artistico il rapporto tra sesso e potere. Decadente quanto un Visconti, il film s’adagia in una prosopopea kitsch, dove oscenità ed iconografia nazista diventano volute ed esasperate direttive, un po’ come nel Salò di Pier Paolo Pasolini. C’è del dolciastro borghese da bordello in questa storia, c’è l’erotismo inteso alla George Bataille, ovvero qualcosa che ha a che fare con il superamento di certi limiti, piuttosto che all’animale – o cattolico – amorevole gesto riproduttivo. Fortemente malsana, la pellicola diventerà film di culto per circuiti underground. Fama giustificata anche dalla torbida prova dei due protagonisti: il glaciale Helmut Berger e la già citata, sempre bellissima, Ingrid Thulin.
- La ballata di Stroszek, Werner Herzog (1976)
Amatissimo dallo scrivente, tanto da poterlo definire “film preferito” a discapito dell’ontologia che ci vorrebbe impersonali, questo capolavoro di Herzog è parabola ancora attualissima del nefasto rapporto tra Europa ed “American dream”. In principio fu Berlino, diroccata e corrotta cittadella post-bellica, dove il povero Bruno S. – qui persona reale ed attore hanno molto in comune – tirava a campare miseramente suonando la fisarmonica in cortili fatiscenti. Innamoratosi di una puttana e desideroso di strapparla ad una claque di profittatori, egli parte speranzoso per l’America, con la bella ed un vecchio squilibrato. Giunti nel paese dei balocchi, i due uomini ingenui e sprovveduti finiranno presto sul lastrico, mentre la signorina riprenderà a prostituirsi con camionisti di passaggio. La scena del pollo che danza in una macchina a gettoni (“the chicken won’t stop, the chicken stops here”) diverrà iconografia del no-future punk, a buon titolo richiamata nei solchi di Still, album postumo di Joy Division. Pellicola visionata da Ian Curtis prima del suicidio nel 1980, riserva tutt’oggi momenti di pura poesia, frammisti ad una morale di fondo ancora pertinente al mondo reale. Se solo esistesse un mondo reale.
- Stalker, Andrej Tarkovskij (1979)
Acqua, ferro e ruggine, più che fantascienza il regista russo propone con Stalker il dietro le quinte umanista di quanto mirabilmente imbastì Kubrik con 2001: odissea nello spazio. Un viaggio metallurgico e distopico, stilisticamente ineccepibile, tanto da fare scuola a contemporanei e posteri: Sokurov, German, Tarr ed il Wenders berlinese, tutti attingeranno in varie occasioni a quella fotografia pre-chernobyl, sotterranea incubatrice estetica che ben rappresentò il tratto stilistico peculiare di Tarkovskij. Cunicoli seppiati, vetri rotti e specchi sciolti, corrose dissolvenze, plumbeo affanno, esistenzialismi messi negli abissi, il labirintico racconto del regista russo resta probabilmente più attiguo all’arte figurativa che alla cinematografia, lasciando nello spettatore l’enigmatica sensazione di restare sospeso tra ovatta ed incudine. Farsene una ragione, senza voler comprendere più del dovuto.
- Veronika Voss, Rainer Werner Fassbinder (1982)
Frocio freak, ma seguito ed ammirato trasversalmente, Fassbinder trova con Veronika Voss l’alchimia perfetta per i suoi travisamenti estetici. C’è la Germania pallida e sconfitta, c’è l’America che giunge tracotante, bombardando, con negri inurbani a farla da padrone nel dopoguerra. Difatti la storia, in un bianco e nero già obsoleto nel 1982, narra dell’asservimento culturale e di un noblesse oblige degradato a pantomima. L’attrice, diva negli anni del reich, Veronika, vive come ibernata in un mondo scomparso per sempre, vittima di un presente inadeguato rispetto al dorato passato ridotto in macerie. Impossibilitata ad accettare il declino, resta sospesa in un nebuloso mondo di psicofarmaci, come viziata dalla nefasta corrispondenza col suo tempo fatto di accattoni questuanti, nella condizione generale di uno stato in ginocchio. Resterà a futura memoria la scena – apice della storia del cinema di tutti i tempi – in cui la divina concede l’ultima esibizione, quella Memories are made of this celebrata borghesemente tra candelabri, argenterie ed ospiti bene agghindati per l’occasione. Sarà l’ultimo segno d’eleganza, prima dell’avvento di una nuova barbarie.
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- Santa Sangre, Alejandro Jodorowsky (1989)
Film definito surreale, certo, ma uscito paradossalmente lo stesso anno del primo Batman e non pare logico, non pare vero. Il pastiche esoterico del funambolico artista cileno di origine ebraica, resta infatti fuori dal tempo, inclassificabile in quanto a genere, stile e a qualsiasi altro parametro di giudizio. Pellicola d’atmosfera ematica e sacrificale, Santa sangre si muove bizzarramente tra suggestioni circensi – mondo apolide con lame e tatuaggi tra elefanti e donzelle volanti – e radicalismi da cristianesimo animista sudamericano, in direzione ignota. In direzione apocalittica? Tra paillettes, transessuali, discariche e santuari in cartongesso, l’inquietante avanspettacolo di Jodorowsky sembra suggerire perverse ritualità ancestrali, inumane per il bon ton contemporaneo, al pari di Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Herzog. L’inconscio, tradotto in simbologie blasfeme e pentecostali, diventa aqua regis, purpureo drappeggio per le vergogne dell’insipido Kali Yuga. Da tradurre, per eventuali iniziazioni.
- Blue, Derek Jarman (1993)
Solo per faci dl male, solo per rammentare l’estrema vicinanza tra eccesso e negazione: quale altro scopo altrimenti, nel perdere tempo davanti ad una schermata blu Klein, immutabile per 79 minuti, se non quello autolesionista? Eppure, l’unico regista oggettivamente punk, morto l’anno seguente per Aids, trova qui la catarsi del suo obliquo poetare. Così come nel monocromo artistico, il radicale azzeramento scenico del film porta il visionante ad accecarsi, in simbiosi come ne Il notturno dannunziano, nell’immedesimazione della sofferenza, della menomazione. “E gli occhi hanno visto la vista”, annunciava Carmelo Bene in Nostra signora dei turchi, in qualche modo anticipando questo cortocircuito incapacitante. C’è poesia laddove l’uomo zoppica, c’è sublime teatralità proprio nella radicale negazione di qualsiasi pretesto visivo. Qui il cinema nega la sua funzione storica per vilipendio all’occhio. Resta la narrazione sfasata, come in un quadro di Emilio Isgrò, a tendere la mano nel vuoto. Non lo guarderete infatti.
- L’uomo senza passato, Aki Kaurismaki (2002)
Assai prossimo ai tempi nostri, forse troppo, tanto che avremmo potuto pescare a caso più addietro nella filmografia del più celiniano dei registi, l’eccellente Kaurismaki. Resta il fatto che questo stralunato lungometraggio rappresenta al meglio la fine che potremmo fare tutti, forse nemmeno così negativa come parrebbe, tanto da farsi segreto auspicio per taluni. Perdere la memoria in seguito a mazzate di ladri balordi, venire raccattati moribondi nei pressi del porto mercantile dopo una improbabile fuga dall’ospedale, inaugurare una nuova esistenza marginale ignari del proprio nome, innamorarsi di una crocerossina, darsi da fare azzerando per forza di cose il passato, infine ritrovarsi a fare i conti con la vita precedente – interviene implacabile “la legge” – per poi abiurarla in favore della nuova precaria condizione. Questo film, pirandelliano ed in fondo fiabesco, narra della più ardua delle liberazioni, ovvero quella da noi stessi e dallo stereotipo che ci siamo costruiti per sopravvivere. Auspicare a tal fine contusioni non è prerogativa di questo scritto, ma se vi capitasse una rissa con traumi celebrali non disperate. C’è una nuova avventura pronta all’uso, immemore della precedente.