La stagione dell’infanzia conserva un importante sottofondo di spensieratezza. Un cantuccio autentico dove rifugiarsi e riprendere vigore. Il primo approccio a quel cinema della distensione, porta la voce di un padre dentro l’illustrazione poetica di due creature bizzarre. La puntualizzazione si posa sulle radici povere di due esistenze. Dettaglio che infonde nella risata del giovane spettatore un respiro di tenerezza. Un leggero afflato, che in punta di piedi, entra nell’atto gioioso. È un guardare l’infanzia dall’infanzia, rintracciando in due grandissime figure attoriali l’archetipo del “Puer Aeternus”: il fanciullo eterno. Accade la purezza in una perpetua inclinazione farsesca nell’epica coppia comica: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
Francesco Benenato e Francesco Ingrassia descrivono l’immagine di due grandi comici che abitano il cuore della gente e mancano alla critica salottiera. Collocati nel cinema definito trash o di serie B in un passato non lontanissimo, rimbrottati con la penna rossa dalla maestrina festivaliera, vivono attualmente una degna riabilitazione. Fenomeno tardivo che abbraccia l’arte di molti grandi, una sorta di parabola che dopo la morte muta direzione. La fine come ritorno alla vita nel principio dell’arte. Ebbene la risata di un bambino è giudice notevole, riconoscimento di un prodigio: adulti abitano l’infanzia. La genuinità che individua la naturalezza di due maschere infantili, bucoliche e generose.
Non figurano accademie nella preparazione attoriale della coppia: gli inizi di Franco si rintracciano nelle strade animate dal suono della sua grancassa. Ciccio si fregia di qualche passo sul palcoscenico teatrale. La cornice del loro incontro è una povera e fragile Palermo del dopoguerra. È l’avvilupparsi di due anime bambinesche, gli eterni fanciulli vivono un mondo non esattamente ideale che attraversano sfidando pericoli a colpi di incoscienza. Nella totale assenza di sceneggiatura nasce quel conflitto che sarà il tema comune di tutte le pellicole: l’alto e il basso, il volto plastico e le pieghe distese, lo sganasciato e il malinconico. L’uno maschera tutta facciale, negli occhi ruotanti e nel dettaglio della voce roca in un grido: “Cicciooo!”. L’altro garbato e sognatore, nell’ingenuità si poggia sulle improbabili soluzioni di Franco. E insieme vivono in pellicola in quel rammendarsi nell’invadenza di un imbarazzo esterno, in quell’aggiustarsi sulla soluzione più bizzarra.
Film di serie B che fanno la fortuna di quelli cosiddetti di serie A. Canovacci che la coppia rende pellicole e finanziamenti per la sfera riconosciuta alta della cinematografia. In passato per lunghissimo tempo, il comico ha vissuto nell’isolamento della regione bassa, in quel distacco necessario alla morale a non scontrarsi con la propria immagine. L’ilarità che nasce sulle labbra è momento di sospensione, un istante prolungato necessario alla vita. Un rigenerarsi dall’impegno, una liberazione dall’obbligo e dall’immagine nostra, tutta di compimento e operosità. Franco e Ciccio rappresentano la comicità assoluta di “baudelariana” memoria. E proprio nell’enunciazione del comico innocente/assoluto di Baudelaire, nell’atto di avvicinare l’uomo alla condizione di gioia suprema e primigenia che si ritrova un’arte considerevole della coppia siciliana. Si tratta di un tornare in contatto con il mondo infantile fatto di innocenza e beatitudine. Nella creazione di una vertigine si sfrena un gioco, l’attore e la maschera si muovono all’unisono in un unico gesto scenico di dissacrazione. Profanazione che nasce, si alimenta e muore in un rincorrersi di ingenuità fatte azione. Una pantomima con il dono della voce si perde nell’eco di una risata innocente.
Ripercorrere la filmografia della coppia è atto impossibile per l’importante mole di pellicole girate. Stimati fortemente da Carmelo Bene, per proporre un’eccezione al piattume della critica, attraversano mediante ronzini metafisici, generi e parodie. Lavorano contemporaneamente su più set. Vantano collaborazioni con nomi importanti:, Steno, Corbucci, Grimaldi, Petri e Girolami. Con la purezza nel volto e il sorriso nel cuore si fanno miracolati nell’assurdo di un’incomprensione. Una roulette russa, che dal film “Per un pugno nell’occhio”, si fa metafora di tutte le pellicole: l’equivoco fortunato che nella follia salva la vita.
Il cinema di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia volta le spalle al sarcasmo, nella velata affermazione che il gesto sovversivo è possibile anche fuori dalla perfidia caustica. L’ambientazione, anche quella più ridicola, è sempre in nome di una delicatezza di chi la vita ha tentato di guardarla negli occhi pur trovandola con lo sguardo altrove. È “l’Allegria dei naufragi”, meno ermetica di Ungaretti, l’allegoria fatta vita da coloro che attraversano il naufragio e riprendono l’esistenza stretti nella morsa di uno stato gioioso. Il lieto che nasce dall’infausto. Una comicità, che non dimenticando le proprie personalissime radici di indigenza, sostiene un’oscillazione circolare e impercettibile tra il sorriso e la risata.
Nella memoria di alcuni, per aver dato voce al silenzio di Buster Keaton in “Due marines e un generale”, nelle immagini di molti per l’epico grido dello zio matto nel felliniano “Amarcord”, nelle pagine di altri per l’episodio pasoliniano “Che cosa sono le nuvole”. Franco e Ciccio, nel cuore di tutti nell’immortalità di un richiamo: l’archetipo fanciullesco. Immagini di letizia che superano in forza ogni nome altisonante. Un cinema da godere nella spensieratezza di un momento, nel sottofondo di un racconto paterno e nelle corde delicate di un’innocenza mai perduta.