“Fumetto italiano. Cinquant’anni di romanzi disegnati” è il titolo della mostra che sino al 24 aprile sarà ospitata nella intima cornice del Museo di Roma in Trastevere. Un evento che mira giustamente a celebrare la grandezza del fumetto italiano degli ultimi cinquant’anni. Un po’ troppo presi come siamo da una certa esterofilia e dalla costante mancanza di conoscenza della nostra cultura, non abbiamo consapevolezza che quello nostrano è stato il maggior fumetto di qualità dal Dopoguerra in poi. La importanza della Scuola Italiana è tale e tanta che, differentemente dalla produzione esclusivamente d’autore che troviamo in Belgio e in Francia, è riuscita sia a proporre dei veri artisti, che hanno fatto la storia della cosiddetta Nona Arte, sia a sviluppare, nel contempo, un fumetto popolare di ottimo livello: pensiamo, ad esempio, al “Diabolik” delle sorelle Giussani, sino all’inossidabile casa editrice Bonelli.
Quaranta opere sono dunque le grandi protagoniste della mostra. Autentici romanzi grafici, selezionati per rappresentare quasi tutte le forme narrative che hanno caratterizzato il fumetto in Italia nell’arco di mezzo secolo. La panoramica offerta al pubblico è abbastanza esaustiva ed è composta da titoli che si riferiscono a storie d’avventura, trame satiriche, biografie e autobiografie, trasposizioni di classici della letteratura, per giungere alle cronache della realtà quotidiana. Alcuni di questi romanzi – non è una esagerazione, giacché molti dei fumetti presentati posseggono una innegabile qualità letteraria – uscirono in episodi su riviste, almanacchi e albi seriali distribuiti nelle edicole. Quelli più recenti, invece, sono stati concepiti per essere subito stampati in un unico volume per le librerie. Ecco, questo ultimo fatto ha privato le giovani leve di due qualità fondamentali che hanno reso grandi i Maestri del passato: il mestiere, la periodicità che si sublimava nella dimensione del feuilleton a puntate; nonché una sana dose di modestia nel non ritenersi degli artisti intellettualoidi.
La mostra privilegia chiaramente l’autorialità, lo si capisce dalla prima, ineguagliabile, opera esposta. Nel 1967, sul mensile “Sgt. Kirk”, uscì “Una ballata del mare salato”, capolavoro di Hugo Pratt, considerato dalla critica europea come il primo vero romanzo a fumetti. Si prosegue con altri notevoli lavori, tra i quali “Sharaz-De, la lunga notte” di Sergio Toppi, e opere “impegnate”, simbolo di una Italia alternativa e politicizzata come “Le straordinarie avventure di Pentothal” (1977) di Andrea Pazienza. La lista degli artisti qui in mostra sarebbe troppo lunga da citare completamente; però alcuni nomi non possono essere omessi. Allora, oltre a Pratt e Pazienza, si ha la possibilità di ammirare la mitica “Valentina nel metrò” (1975) di Guido Crepax, “Lo sconosciuto. Il sequestrato della Sierra” (1975) di Magnus, “L’uomo della Legione” (1977) di Dino Battaglia, “Sognare forse… Le avventure orientali di Giuseppe Bergman” (1988) di Milo Manara, “Max Fridman. No Pasaran” (2000) di Vittorio Giardino, e quello che è probabilmente il miglior fumetto italiano contemporaneo, il beffardo e dissacrante “Rat-Man. Non di questo mondo” (2009) di Leo Ortolani.
“Sono un autore di letteratura disegnata. Disegno la mia scrittura e scrivo i miei disegni”, così si definiva lo stesso Pratt. Non certo un intellettuale, quello della Nona Arte è un mondo che non può e non deve mai prendersi troppo sul serio. Ciò malgrado, riteniamo che egli sia stato uno dei fumettisti più colti di sempre, un lettore instancabile, amante e conoscitore di ogni angolo della sua adorata Venezia, nonché maestro del sopracitato Manara. Come detto, gli studiosi di settore hanno saggiamente individuato ne “Una ballata del mare salato” il primo romanzo a fumetti della storia. Una verità che ci dovrebbe far riflettere. Da anni ormai si decantano le graphic novel create dal mercato anglosassone. Però, queste esistevano già, nel segno di quello che è oggi un nostalgicamente scomparso italico genio.
Si è accennato al preziosissimo ruolo svolto dalle riviste per lo sviluppo del fumetto, con ciascuna pubblicazione che rappresentava un modo di intendere questa arte. Sintetizzando molto, da una parte abbiamo avuto un mensile quale “Corto Maltese” (1983) con, ovviamente, lavori di Pratt, ma anche di Micheluzzi e Toppi, accompagnati da vari inserti giornalistici sulla storia e l’avventura. A far da contraltare a questa testata, quasi in “opposizione”, la decisamente più schierata “Frigidaire” (1980), dove pubblicarono Filippo Scozzari e, soprattutto, Pazienza; il quale riteniamo non sia mai stato veramente un fumettista, bensì uno specialissimo e lisergico illustratore.
Le perplessità sul successo di Zerocalcare
Tra i recenti protagonisti non poteva mancare Zerocalcare (pseudonimo di Michele Rech), autentico fenomeno del Web, poi passato su carta. Strani i fumetti d’oggi, con questo autore, fin troppo naïf, che ha riscosso grazie al suo blog, tramite il quale pubblicizza le proprie tavole dalla sua casa sulla Tiburtina, un successo che lascia perplessi. Originale certo è Zerocalcare, ma le sue sono forse delle Storie? Magari i giovani amano leggersi, essendo autoreferenziali; la fantasia nella epoca moderna è roba da vecchi.
C’è da dire che un limite della mostra lo si ritrova nel percorso espositivo, poco utile per una fruizione ragionata delle tavole: non aver messo le opere in un ordine “storico” dell’opus globale degli artisti, preferendo la data di uscita del singolo lavoro, è stato un errore. Troviamo perciò collocati vicini fumetti che nulla hanno in comune, poiché creati da autori appartenenti a epoche assai diverse, ma presenti comunque nella stessa sala.
I “giornaletti”, così chiamavano i fumetti i nostri genitori. Dispregiativo? Può darsi, ma almeno ciò ha permesso ad autori e critici di settore di non montarsi la testa e lavorare, tanto! In tal guisa, si è sviluppata in Italia una qualità che è stata il pilastro del fumetto europeo. I manga? Sono un altro mondo, bellissimo e inimitabile, ma troppo distante da un punto di vista fumettistico. Su chi fa “manga italiano” vogliamo perciò stendere un velo di affettuosa comprensione. Lasciamo i manga ai giapponesi, ognuno coltivi le sue specificità.
Il grande Roland Barthes scrisse di “Valentina”: “Crepax è un ottimo narratore; sa che l’immagine deve essere viva, raccolta in un lampo (particolare infimo o grande composizione movimentata), per non allentare mai la suspense; sa che tutto deve essere riconosciuto immediatamente (i personaggi, gli oggetti, le intenzioni, i gesti) perché la logica voluttuosa della narrazione possa schiudersi subito facilmente nel lettore. È questa, se così si può dire, l’arte di Crepax”. Cosa aggiungere? Primo, il brillante intellettuale francese ha dedicato questa suggestiva analisi a un artista italiano e non a un suo compatriota (a proposito, proprio in Giappone taluni credono che Crepax sia francese, per via del cognome e della sua lunga esperienza di lavoro nell’Hexagone). Secondo, un plauso va ancora alla Scuola Italiana, tanto modesta quanto unica. Oltralpe avranno pure la prestigiosissima Fiera di Angoulême, ma Noi abbiamo avuto gli autori.